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Sono esattamente dieci anni che nella Costituzione italiana, con la revisione del Titolo V nel 2001, è entrato il principio di sussidiarietà, sia come obbligo delle istituzioni di livello superiore di aiutare quelle di livello più limitato se non ce la fanno a far fronte ai loro compiti, sia come riconoscimento di un potere autonomo dei cittadini di operare per interessi generali, sicuri di poter contare per questo su un doveroso sostegno delle istituzioni pubbliche, dallo Stato al più piccolo Comune. I due aspetti del principio fanno parlare di sussidiarietà verticale (delle istituzioni dall’alto verso il basso) e sussidiarietà orizzontale (aiuto dei cittadini ai governi e dei governi ai cittadini del loro territorio).
Non sarebbe entrato questo principio nella Costituzione se nei decenni precedenti lo sviluppo dei soggetti di cosiddetto Terzo settore non fosse stato significativo e se le forze politiche, nella crisi del loro ruolo di rappresentanza e nell’indebolimento delle istituzioni pubbliche, non avessero iniziato già negli anni Novanta a disporre misure di apertura alla “società civile”, con leggi “di favore” del Parlamento e poi di tutte le Regioni.
 
Lo sviluppo conseguente del Terzo settore è stato così accelerato e, tra nord e sud, per questi aspetti s’è perfino colmata una storica distanza.
Le possibilità che questi soggetti si affianchino positivamente alle istituzioni pubbliche per la realizzazione di politiche economiche e sociali sono così in Italia quasi eguali tra nord e sud, e questo è il dato più nuovo nella storica difficoltà di veder crescere il Paese con lo stesso passo. Tuttavia una differenza permane e riguarda le culture politiche e le attitudini di governo delle classi politiche locali. Dove il rapporto governati/governanti è di tipo clientelare e dove l’intervento pubblico si limita a ripartizioni “a pioggia” di risorse parcellizzate e disperse evidentemente la utilizzazione del “valore aggiunto” dalla capacità sussidiaria dei cittadini non può aver luogo. Si intende che questo riguardi soprattutto il Mezzogiorno, ma non solo (segni di governi proni a interessi corporativi-localistici danno luogo a patologie non diverse nel governo nazionale sotto il ricatto del nord). Di positivo c’è da dire che al sud si sta manifestando un significativo impegno di formazione del Terzo settore, che da due anni vede impegnato il Forum e la Fondazione per il sud: da un lato si cerca di dare consapevolezza e spinta unitaria ai soggetti frantumati dell’associazionismo e del volontariato, ma dall’altro si punta a conformare questo universo come interlocutore valido di quelle forze di governo locale che vorrebbero opporsi alla degenerazione, al malcostume, alla corruzione e alla dipendenza dalla criminalità organizzata.
 
Ma un freno al dispiegarsi più fecondo della modalità di costruzione della “sfera pubblica”, che l’art. 118 della Costituzione indica, viene da un indirizzo interpretativo del principio stesso condiviso da forze del nord – politici e dirigenti di associazioni del Terzo settore, impegnati gli uni e gli altri a coprire con servizi forniti da soggetti no-profit il ritiro degli Enti locali dall’offerta di servizi pubblici. Questo indirizzo, di cui è campione la Regione Lombardia, si lega alle politiche di liberalizzazione e privatizzazione che dagli anni Novanta sono state condivise nel nostro Paese da entrambi gli schieramenti, e inquadra dunque lo sviluppo del Terzo settore nella crisi dei sistemi di welfare pubblico, nell’intento di “funzionalizzare” tali autonome capacità civili ad accollarsi parte dei problemi di cura e di tutela dei diritti sociali, che il “ritiro del pubblico” rende precari.
In sé, data la natura e la misura della crisi che tutti i sistemi di welfare hanno conosciuto, la ricerca di modalità di azioni congiunte e convergenti pubblico-privato non è da criticare. Anzi. È questa la via su cui si sono messe forze diverse, negli Stati Uniti e in Europa.
Il punto è che il ritiro dell’intervento pubblico immediato nei servizi non può procedere per tagli indiscriminati di spesa pubblica e per dismissione della responsabilità istituzionale rispetto all’effettiva realizzazione dei diritti sociali. Il mix di interventi sociali e istituzionali, necessari a un esito di qualità, va valutato con riferimento alle garanzie costituzionali predisposte e al grado di consenso e partecipazione dei cittadini stessi. Insomma la sussidiarietà indirizza alla costruzione di un diverso modo d’essere degli Stati e dei governi locali, non a una resa all’ideologia neoliberista del totale e incontrollato dominio del mercato.
 
Dopo la crisi dei mercati finanziari mondiali del 2007 tutti ora concordano che il problema non è quello del ritiro totale del potere di governo politico, ma se mai quello di accrescere questo potere e trovare modi di regolazione dei mercati che mettano al sicuro le comunità da speculazioni selvagge e istinti predatori. Anche le forze più conservatrici tornano ad autori liberaldemocratici e non soltanto liberisti: la sfida del premier inglese Cameron per la Big society ha questo segno. Ma i guasti di quasi due decenni di ideologia della “sufficienza del principio di mercato” sono difficili da riparare. Tra questi, la distorsione cui si è sottoposta l’idea sussidiaria.
È appena il caso di ricordare che nella Commissione Bicamerale del 1997, in cui fu dapprima discussa la questione, la formulazione “conservativa-privatistica” non fu accolta: rimase sul campo invece la formulazione “progressiva-pubblicistica”, prospettata da una delegazione del mondo associativo, e tale formulazione fu letteralmente ripresa nella revisione costituzionale del 2001.
Tuttavia i dieci anni passati da allora mostrano la divisione persistente. Studiosi e leggi regionali si dividono. Ma le iniziative civiche più significative e le sentenze più meditate indicano che la interpretazione aperta a una circolarità virtuosa tra pubblico e privato dà una speranza in più al Paese, proprio ora che una crisi lacerante e distruttiva mostra la debolezza dei poteri di governo, in Italia e non solo.

Esercizi di sussidiarietà

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