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Si sente ripetere che l’Italia si dovrebbe comportare come la Germania, avendo dimostrato questo Paese d’essere capace di fronteggiare la crisi globale meglio degli altri Paesi europei. Nessuno tuttavia spiega che cosa dovremmo imitare, ove si escluda il continuo richiamo al contenimento del deficit pubblico e dei salari o alla più generica tesi che occorre “fare le riforme”. La politica del rigore applicata alla finanza pubblica e al lavoro non ha basi sufficienti per sostenere che lo sviluppo sia possibile dove i deficit e i salari sono più bassi.
 
Occorre ben altro e questo altro si rinviene in almeno quattro “differenze” del sistema economico tedesco rispetto al nostro:
1 esistono grandi imprese capaci di spendere in R&S, azionando la leva principale della produttività, ossia l’innovazione, e di investire cifre elevate per trovare nuovi mercati di sbocco;
2 prevale in tutti i lavoratori una cultura tecnica molto avanzata, unita all’orgoglio di un lavoro ben fatto, che si traducono in affidabilità internazionale come fornitori di prodotti o esecutori di opere;
3 i sindacati collaborano attivamente e coscientemente all’affermazione delle due altre condizioni, partecipando direttamente al rischio e ai benefici di impresa;
4 il governo persegue politiche di Soziale Marktwirtschaft, garantendo un quadro di regole stabili e di flessibilità ciclica nella loro applicazione.
 
Tutte queste caratteristiche mantengono la Germania al vertice delle graduatorie mondiali della liberalizzazione e della competitività, creando un habitat favorevole agli investimenti, anche dell’estero.
La differenza principale con l’Italia sembra individuabile nel fatto che:
1 abbiamo abbandonato alla loro sorte le grandi imprese, accettandone il ridimensionamento o la scomparsa;
2 la strategia delle imprese è prevalentemente “di nicchia” e la piccola dimensione è prevalente;
3 è carente la cultura tecnica e la vocazione al lavoro ben fatto e alla cura del cliente, che però manteniamo nei settori del bello (il made in Italy) e del gusto (gli alimentari);
4 per volontà di entrambe le parti, hanno prevalso relazioni industriali conflittuali, mediate sovente dallo Stato, accompagnate dal rifiuto alla co-partecipazione. Il nostro welfare promette ogni genere di servizi, che è sempre più complicato ottenere;
5 abbondano regole, le più svariate, talvolta confuse, che vengono continuamente aggirate.
Queste caratteristiche mantengono l’Italia nelle zone inferiori delle graduatorie mondiali di liberalizzazione e competitività, creando un habitat sfavorevole agli investimenti interni, che si vanno delocalizzando, e a quelli esteri, patologicamente bassi. Ne consegue che il tentativo di imitare la Germania per crescere può solo poggiare su riforme che riguardano gli ultimi due punti, dato che i primi due non possono essere facilmente mutati. Per innalzare il livello tecnico e sollecitare affidabilità occorre portare avanti un ampio e duraturo programma educativo.
 
Nonostante ciò, se l’Italia non è caduta molto in basso nel livello di sviluppo e benessere, lo si deve a un’imprenditoria capace di reggere alla concorrenza tedesca, soprattutto nel settore dei prodotti industriali di qualità (il “quarto capitalismo” di Mediobanca). Il complesso delle 400 medie imprese di successo rispecchia il nocciolo duro, difficilmente scalfibile, del complesso di problemi che dobbiamo affrontare. Le statistiche indicano infatti che la produttività è più bassa di quella tedesca, ma lo è ancora di più il costo del lavoro per unità di prodotto. Ne consegue che le imprese italiane registrano un profitto lordo superiore a quello tedesco, testimoniando una buona efficienza delle loro gestioni. Il rovesciamento della loro posizione relativa si ha nell’imposizione fiscale, che grava in misura quasi doppia rispetto a quella della Germania. Il confronto tra i due modelli di sviluppo è presto fatto: in Germania si ha un costo del lavoro e una produttività maggiori, accompagnati da minori tasse; in Italia il costo del lavoro è minore rispetto anche alla produttività, ma la pressione fiscale è più elevata. Non è dato sapere quale sia la direzione di causalità, ma è più che lecito il sospetto che muova dall’elevata tassazione.
 
La vera differenza con la Germania consiste quindi nella pesantezza dell’onere imposto dal settore statale sull’attività produttiva e la correzione sarà possibile se i lavoratori, ma soprattutto gli elettori, raggiungeranno la coscienza sul da farsi, accettando le politiche necessarie. Esse non sono solo la riduzione del deficit di bilancio pubblico – come insiste l’Unione europea e, in particolare, la Germania, anche nell’ultimo incontro dei capi di Stato a Bruxelles – ma la riprogrammazione dell’offerta di servizi pubblici per ricondurre l’imposizione fiscale a dimensioni almeno pari a quelle dell’estero. Non è perciò neanche un problema di livello salariale, ma di contratti che consentano di competere in flessibilità, ripartendo i benefici con i lavoratori.
In conclusione, il problema dell’Italia non è fare quello che fa la Germania, ma quello che deve fare a prescindere da ciò che fanno gli altri, tenendo conto della diversità del nostro sistema produttivo, risultato della nostra cultura. Anche perché si hanno seri motivi per ritenere che la Germania non si proponga come benchmark di un rapporto paritetico, ma stia tornando al vecchio vizio dell’über alles.

Benchmark o über alles?

Si sente ripetere che l’Italia si dovrebbe comportare come la Germania, avendo dimostrato questo Paese d’essere capace di fronteggiare la crisi globale meglio degli altri Paesi europei. Nessuno tuttavia spiega che cosa dovremmo imitare, ove si escluda il continuo richiamo al contenimento del deficit pubblico e dei salari o alla più generica tesi che occorre “fare le riforme”. La politica…

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