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Finché il mondo va male allora l’Italia può stare tranquilla. Ma è quando tutti ricominciano a correre che sono guai. Giovanni Tria, economista ed ex ministro dell’Economia dal giugno 2018 al settembre 2019, lo dice in modo chiaro, netto, quasi calmo. La crisi di governo, non totalmente archiviata, rischia di mettere seriamente a rischio il percorso che porta verso il Recovery Fund. La prossima settimana, il testo del Recovery Plan uscito da Palazzo Chigi due settimane fa è atteso in Parlamento, proprio in quelle commissioni del Senato dove il governo rischia imboscate che lo porterebbero ad andare sotto. Ma forse il punto è un altro: quel documento è troppo vago e poco convincente.

Tria, tra poco più di due mesi dobbiamo spedire all’Europa il Recovery Plan. C’è chi ha giudicato il documento come vago e fumoso. Lei che dice?

Abbiamo visto due bozze. La prima non era leggibile, la secondo è migliorata perché c’è più disponibilità di risorse per la spesa in conto capitale e ci sono anche strumenti addizionali. Ma a parte questo, si tratta di un elenco di bisogni.

Non suona molto bene…

No. Perché vede, se devo andare oltre un fiume mi serve un ponte, ma quello è un bisogno non un progetto. Lo stesso vale per il Recovery. Si dice che serve fare questo e quello ma non si sa se dietro questi bisogni ci sia appunto una scheda progettuale, con piani finanziari e soprattutto le stime dei rendimenti sull’economia e sulla crescita. Dopo sette mesi, porsi queste domande lascia un po’ perplessi.

Mancherebbe anche la governance a dire il vero.

Certamente, perché al di là della firma che mette il presidente del Consiglio, chi ci mette davvero la faccia? La non definizione di tutto questo ha impedito che si avanzasse. Fino a poco tempo fa il documento era a Palazzo Chigi, ora dovrebbe essere al Mef. Ma sempre dal Consiglio dei ministri è uscito e non vedo un reale avanzamento dei lavori.

Tria, l’Italia avrà prima o poi un problema debito, anche perché abbiamo fatto molto deficit quest’anno. I mercati almeno per il momento sembrano benevoli ma la Bce non potrà sostenere il nostro debito in eterno. E allora che si fa?

Bisogna fare Pil, bisogna crescere. La sostenibilità di un debito dipende dal tasso di crescita dell’economia. Noi possiamo anche avere un debito al 160-165% ma questo cambia poco in termini di sostenibilità. Quello che conta davvero è la crescita. Come dico spesso, finché le cose vanno male per tutti allora possiamo stare relativamente tranquilli, perché la Bce ci sosterrà. Ma quando il mondo e l’Europa torneranno a correre, lì dovremo rispondere di questo nostro debito contratto.

Qualcuno ha parlato di patrimoniale. Anche per ridurre il debito…

Sì, ne ho sentito parlare. Ma francamente lascerei perdere perché è un po’ come quando si dice che non bisogna aiutare le imprese che non hanno futuro. Scusi ma chi decide chi vive e chi no, la politica? No, è il mercato che fa la selezione. Lasciamo che sia il mercato a dettare certe regole. Sennò o si aiutano tutti o non si aiuta nessuno.

Un mondo che cambia ha bisogno forse di nuove regole. E lei ha spesso sostenuto tale idea, chiamando in causa Bretton Woods. 

Bretton Woods stabilì la centralità del dollaro, come moneta. Adesso si tratta, in un mondo diverso e con pesi diversi, di stabilire nuove regole per quanto riguarda il commercio internazionale e anche riguardo al sistema valutario. Il grande problema è che il Paese che emette la moneta di riferimento spesso pensa a se stesso e questo non va. Altrimenti dalla guerra dei dazi si passa anche alla guerra valutaria.

Tria, oggi si insedia Joe Biden alla Casa Bianca. Che cosa dobbiamo aspettarci dalla sua politica economica?

Sicuramente una politica economica espansiva, come del resto ha fatto Trump. Sul fronte internazionale credo assisteremo a forme di multilateralismo, con un possibile avvicinamento alla Cina. E magari con un accordo internazionale per nuove regole globali, anche valutarie. D’altronde dobbiamo evitare l’esplosione del debito privato e per questo servono oggi nuovi equilibri, anche su impulso degli Stati Uniti.

La saluto con Stellantis. Lo Stato italiano doveva essere della partita? I francesi lo sono…

Onestamente non vedo lo Stato italiano pronto a entrare in questo tipo di realtà. In Francia c’è una tradizione e un’amministrazione diversa, molto presente nell’economia. Anche in Italia, soprattutto nelle quotate. Ma tenderei a non espandermi ulteriormente. Se fosse richiesto espressamente allo il governo potrebbe pensarci. Ma entrare così a gamba tesa non mi pare saggio.

i-com

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