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La batosta elettorale del Partito Democratico rientra a pieno titolo tra i fatti inequivocabili del 4 marzo. Ormai è il momento, per il più importante partito della sinistra, di porre rimedio alla situazione e di tornare ad immaginare il futuro. Un punto di partenza è evidente. Lo spazio politico progressista, tremendamente ridimensionato, non è scomparso e non vede reali alternative alla centralità del PD. Forse è in questa logica necessaria che va interpretata la reazione scomposta alle dichiarazioni del segretario dimissionario Matteo Renzi da parte dei maggiorenti e la scesa in campo del ministro Carlo Calenda.

Due nodi sono al centro della questione. Da un lato il recupero di un’identità politica appannata e dall’altro quello di possibili alleanze in uno scenario sicuramente tra i più complicati che siano immaginabili.

Ieri Piero Fassino ha tratteggiato poi un altro aspetto non marginale che riguarda la collegialità. Se vi è un elemento metodologico che ha definito la segreteria Renzi, infatti, è stato proprio quello del personalismo che, in modi più o meno traumatici, ha generato scissioni, esclusioni e mal di pancia interni. A prescindere dai tempi delle sue dimissioni concrete, il Pd ha sicuramente bisogno di tornare a parlare, a discutere e a preparare un congresso vero, nel quale le idee possano essere messe sul tavolo di lavoro, ben prima di essere condivise o meno.

Intendiamoci: guardando le cose dall’esterno, le colpe non sono solo di Renzi. Vi è stato ogni volta o un accomodarsi sotto il suo trono oppure un rifiutare totalmente la sua primazia, ma sempre poco coraggio nell’affrontare il politico fiorentino di petto e con lealtà.

Ad ogni buon conto, nella tradizione della sinistra, è fondamentale che il PD torni a pensare e a confrontarsi su ciò che vuole essere.

È su questo punto che la scesa in campo di Calenda acquisisce un suo senso. Formalizzare l’iscrizione significa di fatto voler tentare di dare una direzione nuova, diversa, più politica all’esperienza di governo, nel partito in cui egli si sente a casa.

Naturalmente vi è però anche il secondo punto irrisolto, quello delle alleanze. Questo aspetto è talmente inseparabile dal primo che ha spinto subito lo stesso Calenda ad escludere qualsiasi disponibilità ad eventuali aperture al M5S.

In effetti, all’interno del partito non manca chi ha sempre concepito come interessante il dialogo con i grillini. Ma se ciò fosse portato avanti al punto da tessere le fila di un’alleanza, il Pd sceglierebbe la subalternità alla costruzione di una vera alternativa politica, opterebbe per il movimentismo altrui e non per il proprio riformismo.

Il punto sostanziale è quanto la passata esperienza possa essere riproposta in modo vincente dal punto di vista del consenso. Il giudizio negativo degli elettori, infatti, non ha riguardato probabilmente soltanto la delusione per Renzi, cresciuta dopo il mancato plebiscito referendario, ma anche molte delle scelte politiche intraprese, apparse sicuramente troppo elitarie, troppo distanti dalla gente: un tempo si sarebbe detto, troppo borghesi e autoreferenziali. Quando il vertice si stacca dalla sua base, la base non vota il suo vertice.

La sinistra del futuro non potrà rinunciare, in definitiva, ad essere, come Gianni Cuperlo ha detto ieri, un progetto che costruisce con la politica il suo popolo e produce con l’iniziativa il coagulo di aggregazione antagonista alle destre, così forti oggi nel Paese: una sinistra che continui insomma a credere che l’ordine politico dipende dalla volontà di immaginarlo e realizzarlo effettivamente.

In questa logica, la figura di Calenda garantisce appartenenza, esperienza, competenza, dinamismo e novità al Pd, se riuscirà, ovviamente, a non essere troppo intransigente, intemperante e decisionista da non essere capito. Sono, in ogni caso, i primi passi di qualcosa di nuovo, ancorché preparato da tempo, contro cui il centrodestra dovrà in modo sicuro misurarsi nei prossimi mesi, verificando la qualità e la solidità del proprio conservatorismo.

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