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Quella “bandiera rossa” orgogliosamente cantata a Testaccio dalle minoranze del Pd, radunatesi alla vigilia dell’odierna riunione dell’assemblea nazionale per la convocazione del congresso, non è stata una concessione innocua alla nostalgia. È stata peggio di un anacronistico salto indietro di almeno 27 anni e rotti, quanti ne sono passati dalla caduta del muro di Berlino, o di 26, quanti ne sono trascorsi dalla rimozione della bandiera rossa, appunto, quella con la falce e il martello, dalla cupola del Cremlino, a Mosca.

È stata una provocazione politica, per il contesto in cui si è deciso di ricorrervi. E’ stato un assalto all’avversario di classe, o di turno. Che sarebbe, in questo 2017, a quasi cento anni dalla rivoluzione sovietica, ribattezzata come socialista a Testaccio, addirittura Matteo Renzi. E questo per la sua “pretesa”, secondo chi ne vorrebbe prendere il posto di segretario, di fare svolgere il congresso col “rito abbreviato”, come dice, da specialista dei processi, il magistrato e governatore pugliese Michele Emiliano. Il quale peraltro contende ai compagni di partito Enrico Rossi e Roberto Speranza il piacere e l’onore di rovesciare il vertice del Pd.

Il cosiddetto rito abbreviato, come Emiliano ha liquidato i quattro mesi, non giorni o settimane, prescritti dallo statuto del partito dalle dimissioni del segretario per percorre tutto il tragitto congressuale, avrebbe per le minoranze l’inconveniente di precedere e non seguire le elezioni amministrative non ancora fissate ma che dovranno svolgersi fra maggio e giugno. Pochi ne parlano, ma questo è il punto dirimente della controversia.

Saranno chiamati alle urne circa dieci milioni di elettori per rinnovare le amministrazioni di città, fra le altre, come Genova, Parma, Piacenza, Padova, L’Aquila, Catanzaro, Palermo. I cui risultati sono previsti negativi dagli avversari di Renzi: tanto da poterglieli contestare con quelli amministrativi della primavera del 2016 e, naturalmente, con la disfatta referendaria del 4 dicembre sulla riforma costituzionale.

Un congresso dopo le elezioni amministrative di giugno darebbe agli avversari di Renzi l’occasione di rifilargli, come in una partita di biliardo, un filotto micidiale. Che precluderebbe al segretario la riconferma o, come dice continuamente Bersani, renderebbe davvero “contendibile” il partito, anche se l’ex segretario ha il pudore di non rendere esplicito il collegamento con le elezioni amministrative: forse per non tradire la voglia di molti compagni di fare come al referendum di dicembre, cioè di contribuire alla sconfitta del proprio partito.

Va però detto che le minoranze con questa storia del congresso hanno un po’ pasticciato. Sono state loro a reclamarlo per prime, sino a cominciare raccolte di firme e a minacciare di ricorrere ai tribunali con le famose “carte bollate” evocate in televisione da Emiliano. Pertanto quando Renzi ha accettato la sfida e ha posto il problema della sua convocazione, le minoranze hanno evidentemente scoperto che i tempi del congresso fissati dallo statuto non coincidevano e non coincidono con quelli utili ai loro obiettivi. E si sono un po’ incartate, sino a contestare le regole da loro stesse fissate in occasione del congresso precedente, di tre anni fa: un congresso, con annesse primarie, stravinto da Renzi ma mai digerito dai suoi avversari.

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Ad alzare più impietosamente il velo sulla crisi del Pd, denunciando le ragioni, diciamo così, intime per le quali sono maturate prima le minacce e poi le voglie della scissione, è stato forse l’ex ministro della Difesa Arturo Parisi, fedelissimo di Romano Prodi e cultore di quell’Ulivo al cui spirito si richiamano le sinistre interne per considerarlo incompatibile col profilo politico e persino personale di Renzi.

“La minoranza del Pd -ha appena dichiarato Parisi all’Avvenire riferendosi in particolare alla componente del Pd proveniente dal Pci e sigle derivate- non riesce ancora, non dico ad accettare, ma neppure a spiegarsi com’è accaduto che in quella che riteneva per eccellenza la sua casa sia finita alla pari con gli altri”, cioè  con quelli di provenienza democristiana o comunque diversa dal comunismo.

Prima ancora di sapere della “bandiera rossa” cantata a Testaccio dagli avversari di Renzi per prepararsi all’odierna assemblea nazionale del Pd Arturo Parisi ha detto, sempre all‘Avvenire e parlando della stessa parte politica: “La minoranza continua a pensarsi come rappresentante di tutta la sinistra e arbitra perciò della stessa natura di sinistra del partito”.

D’altronde, va ricordato che già ai tempi del Pci l’attuale sinistra del Pd si considerava l’unica depositaria di questa denominazione. Per non risalire agli anni della socialdemocrazia scambiata per una variante del fascismo o del capitalismo, basterà ricordare dove il Pci di Enrico Berlinguer classificava negli anni Ottanta il segretario del Psi Bettino Craxi: a destra, non a caso rappresentato nelle vignette di Repubblica in camicia nera, stivaloni e testa in giù, come Benito Mussolini appeso da morto in Piazzale Loreto.

A destra veniva sbattuto nella rappresentazione giornalistica delle correnti della Democrazia Cristiana da parte dei comunisti, per il suo dichiarato anticomunismo, anche il povero Carlo Donat-Cattin. Che, per contenuti della sua azione di governo e delle sue impostazioni programmatiche, oltre che per la sua provenienza dal sindacato, era decisamente l’uomo più a sinistra della Dc, l’unico tentato da una scissione alla fine degli anni Sessanta, trattenuto solo da Aldo Moro, mentre i conservatori  scudocrociati erano pronti a liberarsene.

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Tutto questo potrebbe, anzi dovrebbe consolare Renzi in quest’altro passaggio difficile della sua avventura politica e, più in generale, del Pd fondato solo 10 anni fa da Piero Fassino e Walter Veltroni, di provenienza comunista, e dal post-radicale, ambientalista e cattolico riconvertito Francesco Rutelli. Che poi sarebbe stato il primo ad accorgersi della situazione così lucidamente descritta in questo 2017 da Arturo Parisi. “Cicciobello”, cioè Rutelli, se ne sarebbe accorto, in particolare, con l’elezione di Bersani a segretario, andandosene via e lasciando nel Pd amici che non a caso si ritrovano adesso con Renzi, a cominciare da Paolo Gentiloni e da Roberto Giachetti. Un Renzi, va detto, così poco di destra da avere portato il Pd, come primo atto della sua segreteria, nel Partito Socialista Europeo. Dove Veltroni, Dario Franceschini, Bersani e Guglielmo Epifani, i suoi predecessori, non avevano osato.

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