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Non s’arrabbino i tifosi rossoneri, ma l’Italia non è il Milan. Non s’arrabbino, però, neanche i tifosi di tutte le altre squadre se, ora che la bella favola del buon Diavolo finisce, ricordiamo che il Milan ha rispecchiato per molti anni, quelli del presidente Silvio Berlusconi, il meglio dell’Italia che vince, che intraprende, che non si arrende neanche al novantesimo. Quell’Italia di fine anni Ottanta in avanti, che sapeva includere gli stranieri -ogni riferimento agli olandesi Gullit, Rijkaard, Van Basten, Seedorf è voluto- e portarli al trionfo coi colori italiani. Una nazione che poco si lamentava e tanto faticava sul campo. Il campo di San Siro non meno di quello della vita.

L’addio di Berlusconi, che ha appena venduto per 740 milioni a una cordata cinese guidata da tale Yonghong Li la società calcistica nata nel 1899 per far sognare generazioni di bambini e adulti di tutto il mondo è, dunque, allo stesso tempo, la fine di un’epoca e di una parabola. L’epoca di una serie A in mano a presidenti di club italiani, mentre oggi, come avviene pure negli altri Paesi europei del nostro alto livello calcistico, le squadre del cuore sono spesso di proprietà non europea. A Milano sia l’Inter che il Milan ormai parlano cinese.

Ma il cedimento del patriarca non è solo calcio. Proprio l’uomo che sull’onda popolare del Milan più volte campione in casa e all’estero (ventinove trofei) s’era candidato, nel 1994, per “far vincere” l’Italia dagli spalti di Palazzo Chigi, ora si mette da parte. Passa di mano il suo giocattolo più bello e preferito: non è difficile cogliere un senso di ripiegamento che forse va ben al di là dello sport. Se da “Forza Milan” Berlusconi aveva poi battezzato “Forza Italia”, se dallo stadio si rivolse alla piazza e dai tifosi agli elettori, è evidente che, chiudendosi il primo cerchio della grande sfida, se ne comprime il secondo. Non già perché i consensi degli italiani non siano più quelli, notevoli, che fecero diventare per quattro volte presidente del Consiglio il presidente del Milan per trentun anni. E’ invece il gesto personale e “doloroso” -parole sue- che evoca, a prescindere dalle ragioni di chi l’ha appena compiuto, anche la fine di un ciclo politico.

Certo, il Cavaliere ripeterà che lui rimane “il leader del centro-destra”. Ma ritirandosi dalla cosa che gli ha spalancato le porte dell’impegno parlamentare e istituzionale, è difficile immaginare che fra la partita e il partito tutto si riduca solo a un gioco di pallone.

(Articolo pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi e tratto dal sito www.federicoguiglia.com)

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