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L’impegno politico e diplomatico della Cina in Medio Oriente si è intensificato, ma la regione resta non così centrale per le preoccupazioni di politica estera di Pechino come le sue relazioni con le grandi potenze, gli Stati Uniti e la Russia, o i vari Paesi, amichevoli o ostili, nelle sue immediate vicinanze. La valutazione riassume uno studio efficace firmato da Jonathan Fulton e Michael Schuman esperti rispettivamente del Rafik Hariri Center & Middle East Programs e del Global China Hib dell’Atlantic Council.

I due thinktanker analizzano che c’è stato un cambiamento della politica della Cina in Medio Oriente, passato da una strategia di “copertura” a una di “divisione”. “La logica dell’hedging” si basava sull’evitare di prendere posizione netta per mantenere flessibilità. Il “wedging” attuale invece consiste nell’intervenire attivamente per dividere e influenzare gli equilibri tra gli attori in competizione. Se finora la logica cinese era di gestire relazioni equilibrate con tutti gli attori regionali, la strategia di “wedging” punta adesso a sfruttare sensibilità anche per creare divisioni tra gli Stati Uniti e i loro alleati nella regione.

Questo cambiamento comporta la necessità di un posizionamento della Cina come potenza chiave, sfruttando le lacune tra gli Stati Uniti e alcuni alleati mediorientali. Inserendosi in certe vulnerabilità, Pechino prova a dimostrare una comunanza di istanze con quei Paesi che reputa più importanti. Lo studio evidenzia l’approfondimento dei legami economici, diplomatici e di sicurezza della Cina, la sua posizione pro-palestinese e le sue aspirazioni a guidare il cosiddetto “Global South”. Ma a che costo? Cosa significa questo cambiamento d’approccio per le attività di Pechino nella regione?

Secondo Fulton e Schuman, il passaggio della Cina dallo “hedging” al “wedging” in Medio Oriente presenta diverse sfide. La Cina rischia di essere costretta a prendere posizione nei conflitti regionali, cosa che preferiva evitare. Per esempio, nel caso della guerra nella Striscia di Gaza, la posizione pro-palestinese di Pechino ha deteriorato i rapporti con Israele, evidenziando la difficoltà di mantenere legami neutrali. Qui emergono anche alcuni tratti dell’impossibilità di replicare la posizione centrale degli Stati Uniti, almeno attualmente: la Cina non può eguagliare la capacità diplomatica e militare di Washington, che rimane il partner di sicurezza principale per molti Paesi della regione, dove la sicurezza resta un tema cruciale. Sulla scorta di questo, e a causa della competizione estesa tra potenze, alcuni governi regionali, pur desiderosi di mantenere buone relazioni con la Cina, non si sentono ancora pronti a sostituire l’influenza degli Stati Uniti con quella cinese. E dunque, nonostante una buona immagine creata con i primi tentativi di rendere più esplicita la propria influenza, il supporto popolare per i legami economici con la Cina è in calo in molti Paesi del Medio Oriente.

Eppure, negli sforzi diplomatici della Cina, la regione ha un’importanza unica per due scopi generali. In primo luogo, la Cina mira a sostenere la sua immagine di grande potenza, e il Medio Oriente è una regione importante, che comprende la sicurezza religiosa, geopolitica e delle risorse; dove i principali Paesi devono essere presenti, quindi la Cina è presente. In secondo luogo, la Cina vuole migliorare le relazioni con alcuni di quegli stati perché sono mercati importanti, fonti di energia, partner in contratti redditizi, nazioni in costante sviluppo spinto, e dunque geopoliticamente strategici.

I due studiosi dell’Atlantic Council forniscono anche le cosiddette “policy recommendations”, ossia indicazioni per il governo statunitense — e di riflesso per quelli alleati e like-minded come l’Italia — su come muoversi davanti allo sviluppo della strategia cinese. Sono cinque elementi: essere realistici, veicolare il messaggio giusto, sfruttare le debolezze cinesi, aumentare l’impegno, spingere per l’inclusività.

Realismo: la Cina è ormai una presenza stabile in Medio Oriente, grazie anche a errori passati degli Stati Uniti, come la guerra in Iraq; convincere gli alleati a distanziarsi da Pechino è improbabile, poiché i Paesi della regione cercano alternative in un mondo multipolare.

Narrazione: gli Stati Uniti devono contrastare la propaganda cinese che li dipinge come la fonte dei problemi regionali, promuovendo invece i benefici della cooperazione con Washington, nonostante la sua posizione su Israele.

Spazi e debolezze: senza concentrarsi troppo sulle critiche, Washington dovrebbe evidenziare le debolezze della Cina, come la mancanza di interventi costruttivi, ad esempio nel conflitto yemenita, e sfruttare il vantaggio tecnologico americano.

Impegno: gli Usa dovrebbero impegnarsi di più nella regione, specialmente sulla questione israelo-palestinese, sfruttando il loro peso diplomatico per guidare negoziati e promuovere una soluzione a lungo termine.

Inclusività: Washington deve includere maggiormente i Paesi mediorientali nella governance globale, facendo loro capire che l’ordine internazionale guidato dagli Stati Uniti offre le migliori opportunità per far sentire la loro voce.

Perché la politica cinese in Medio Oriente è diventata più affilata

Secondo gli analisti Fulton e Schuman dell’Atlantic Council, la Cina sta passando a una nuova strategia di “wedging” in Medio Oriente. Cosa significa questo nuovo approccio? Che limiti e che raccomandazioni deve raccogliere un Paese alleato Usa e impegnato nella regione come l’Italia?

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