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Grazie all’autorizzazione del direttore dell’Unità Erasmo De Angelis, pubblichiamo il commento di Andrea Romano uscito oggi sul quotidiano l’Unità

Complimenti a Corbyn, perché chi conquista la leadership di un grande partito in una competizione aperta merita sempre rispetto. E complimenti al Labour, che ha saputo reagire alla sberla elettorale dello scorso maggio interrogandosi sul proprio ruolo nella Gran Bretagna del 2015. Al contempo è inevitabile leggere nella vittoria di Corbyn il ritorno alla tradizione dell’autolesionismo laburista: componente fondamentale della storia gloriosa di un partito dal profilo bifronte.

Perché il Labour al governo ha saputo definire i contorni di un modello di welfare state che ha ispirato molti paesi europei (come nel secondo dopoguerra) e ha espresso con i governi di Tony Blair il grado più alto di un riformismo di sinistra che vinceva e cambiava le cose. Ma dalla sponda dell’opposizione quello stesso Labour è stato capace di esprimere un rifiuto radicale del consenso elettorale, ripiegandosi su se stesso e allontanandosi dall’aspirazione al governo e alla concreta realizzazione delle proprie politiche.

Da ultimo è accaduto negli anni Ottanta, quando i laburisti scelsero di diventare una forza sempre più identitaria e dunque sempre più minoritaria. Quanto accadde trent’anni fa dinanzi all’egemonia della Thatcher rischia di ripetersi oggi dinanzi al governo di Cameron: un esecutivo destinato a durare per i prossimi cinque anni, forte di un mandato elettorale chiaro e libero dai condizionamenti della coalizione con i Liberaldemocratici a cui era stato costretto nella scorsa legislatura.

La vittoria di Corbyn si spiega anche con la certezza che i laburisti non dovranno battersi per il governo almeno fino al 2020. Nessun vincolo elettorale all’orizzonte, nessuna necessità di convincere i britannici che le politiche del Labour siano più efficaci di quelle dei conservatori, nessun rischio che la destra venga sfidata e sconfitta. E spazio libero all’autolesionismo di ritorno di un grande partito che potrà dedicarsi a coltivare in solitudine le fantasiose ricette di Corbyn.

Perché tali rimangono, anche oggi, le proposte di un leader che immagina di rilanciare l’economia britannica tornando a puntare sulle miniere di carbone o a stampare moneta fuori dai vincoli di bilancio: cancellando così l’indipendenza della Bank of England (voluta dall’allora ministro Gordon Brown, non esattamente il clone di Blair) e resuscitando le politiche di “tax and spend” che per decenni hanno allontanato la sinistra dal governo delle grandi democrazie europee.

Al di là dei suoi tormenti ideologici, la più che probabile marginalizzazione laburista rischia nel prossimo futuro di assecondare le pulsioni isolazioniste e antieuropee della Gran Bretagna. Perché anche sull’Europa Corbyn torna ad un aspetto niente affatto splendente nella storia del Labour, che in più di una occasione nel proprio passato ha mostrato riluttanza verso l’impegno europeo. Dopo essersi spaccato a metà in occasione del referendum del 1975 per la permanenza di Londra nella CEE, il partito laburista espresse per buona parte degli anni Ottanta (e fino alla svolta filoeuropea avviata da Neil Kinnock) una visione profondamente ostile all’Europa comunitaria che faceva il paio con l’antieuropeismo della destra radicale.

Uno scenario simile a quello di oggi, alla vigilia del nuovo referendum che dovrà tenersi entro il 2017, con Corbyn che si è già rifiutato di aderire alla campagna per restare in Europa e che rischia di associare nei fatti il Labour alle posizioni di UKIP e dei settori più oltranzisti dei Tories. Anche per questo, piuttosto che una svolta a sinistra, quella di Corbyn somiglia al ritorno all’irrilevanza di quello che rimane un grande partito di popolo che nel corso di una storia più che centenaria ha attraversato stagioni anche molto cupe.

Con Corbyn vince l'autolesionismo laburista

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