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Grazie all’autorizzazione del gruppo Class editori pubblichiamo un estratto dell’articolo di Domenico Cacopardo apparso su Italia Oggi, il quotidiano diretto da Pierluigi Magnaschi

È l’indignazione il sentimento suggeritomi dai titoli di giornale riguardanti il «Vietnam» (copyright di Renato Brunetta, alias il Farinacci di Berlusconi) annunciato dalla minoranza bersaniana del Pd in occasione della presentazione degli emendamenti (commissione Affari costituzionali Senato) sulla riforma del Senato in terza lettura. In una freudiana manifestazione di neostalinismo, Corradino Mineo (un altro premio Nobel della costellazione «minoranze Pd») esprime dubbi sulla sanità mentale degli esponenti della maggioranza renziana del partito: per fortuna i manicomi sono stati chiusi e il futuro non sembra arridere a gente come Mineo.

Indignazione per la mancata consapevolezza della partita che sta giocando il Paese, legato in modo quasi indissolubile, come mai nella sua storia, a un partito, il Pd, che esprime la stragrande maggioranza dei deputati e una maggioranza relativa di senatori. Per merito di Matteo Renzi, il suo partito ha conquistato la posizione centrale nel dibattito ed è diventato il punto di riferimento per una quota non indifferente dell’elettorato centrista e di destra.

Ma la voglia di punire Renzi e di mandarlo a casa prevale sulla fredda e razionale analisi della situazione, degli impegni internazionali che abbiamo assunto e alle attese degli italiani, consapevoli che è iniziato un cambiamento e che da esso dovrebbero derivare riforme, governabilità, ripresa, risanamento economico.

Viene spontanea una domanda: ma che partito è stato il Pd per affidare la responsabilità della sua direzione a Pierluigi Bersani? Il leader degli imbarazzanti incontri con il Movimento 5Stelle (2013) prima e, ora, delle inaccettabili minacce al primo ministro, segretario del suo medesimo partito.

Se vincesse Bersani con i suoi uomini, l’Italia tornerebbe immediatamente alla paralisi degli anni scorsi, agli interminabili negoziati con Vendola o Ferrero, all’impossibilità di introdurre una qualsiasi riforma significativa nel sistema.

Certo, la riforma del Senato, approvata in due letture, è una proposta infelice. La scelta di questo terreno per mettere in scena lo scontro, è dovuta proprio all’insufficienza del testo.

Lo riassumiamo: «Rappresenta le istituzioni territoriali. Concorre alla funzione legislativa ed esercita la funzione di raccordo tra l’Unione europea, lo Stato e gli altri enti costitutivi della Repubblica partecipa alle decisioni dirette alla formazione e all’attuazione degli atti normativi dell’Unione valuta l’attività delle pubbliche Amministrazioni, verifica l’attuazione delle leggi controlla e valuta le politiche sul territorio esprime parere sulle nomine».

Quanto alla composizione: «Novantacinque rappresentativi delle istituzioni territoriali e da cinque dominati dal Presidente della Repubblica i consigli regionali e i consigli delle provincie autonome eleggono, con metodo proporzionale, i senatori tra i propri componenti e, nella misura di uno per ciascuono, tra i sindaci dei comuni la durata del mandato dei senatori coincide con quella degli organi (che li hanno) eletti».

Si dimostra così il pasticcio prospettato da Renzi e votato per due volte dal Parlamento. Certo, sarebbe stata più lineare e più comprensibile, la soppressione «tout-court»: non c’è stato il coraggio di proporla in mancanza di una maggioranza di senatori.

Tra l’abolizione e il pasticcio attuale, un mix di frasi «vintage» e di propositi irrealizzabili, c’erano tante soluzioni coerenti e più difendibili dell’attuale.

Ciò, nonostante tutto, non giustifica la minaccia di un «Vietnam» salvo che per una considerazione: con la riforma il Senato cessa di essere un vero soggetto politico capace di condizionare il governo. E, invece, è proprio questo che vogliono Bersani&suoi. Lo si capisce benissimo: giovane, ma non giovane abbastanza da non avere succhiato i fondamenti dell’ideologia di Berlinguer (l’Italia non si governa con il 51%; larghe maggioranze che riproducano più o meno le formule del CLN), Bersani si è sempre mosso nell’ottica di una democrazia consociativa, tanto da tentare di coinvolgere nel suo maldestro tentativo di formare un governo anche i suoi nemici giurati, i grillini, portatori di istanze contraddittorie e populiste.

Su questo fronte, non ci possono essere compromessi. Se Renzi negozierà qualche modifica (e sarebbe molto opportuno per prosciugare lo stagno in cui si alimenta l’opposizione interna e recuperare qualche sbandato) non potrà, né dovrà cedere sull’aspetto fondamentale della riforma.

Anche l’elezione diretta dei senatori potrebbe essere disponibile, purché non accompagnata da un recupero di poteri di veto e di condizionamento dell’esecutivo.

Ecco la vera partita nel Pd che cela la riforma del Senato

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