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Con l’entrata in vigore del contratto a tutele crescenti, il cuore del Jobs Act elaborato dai tecnici renziani ha cominciato a battere. Almeno stando al profilo proposto dalla comunicazione del provvedimento, che ruolo di propulsore lo ha assegnato proprio al nuovo contratto a tempo indeterminato.

Si tratta effettivamente di una questione di percezione del cambiamento. Non tanto perché la novità introdotta non sia dirompente. Lo sarà eccome. Piuttosto tocca osservare che al percorso di rinnovamento del sistema del lavoro italiano manca ancora una componente sconosciuta al grande pubblico che è il resto dell’apparato circolatorio, per proseguire la metafora anatomica.

Il nuovo assetto delle politiche attive si prefigura sotto l’insegna della nuova Agenzia Nazionale per l’occupazione, della quale però il relativo decreto non è ancora stato presentato. Il ricircolo dell’occupazione innescato rischia quindi ora di rivelarsi difettoso, perché a voler essere pessimisti si può congetturare un fenomeno prevalentemente sostitutivo dei contratti (quindi senza nuova occupazione), rigidità nell’organizzazione interna dovuta alla persistenza delle vecchie tutele e una più facile fuoriuscita dal mercato del lavoro dei nuovi assunti, senza che un efficiente rete di accompagnamento alla ricollocazione sia stata tessuta.

Eppure la valenza della questione d’immagine di cui il contratto a tutele crescenti si è caricato appare palesemente da un fenomeno in crescita in questi giorni: la corsa all’annuncio di nuove assunzioni. Non quelle previste in vario modo da istituti di ricerca e da parti del Governo, di cui le pagine dei giornali si sono riempite ben prima dell’entrata in vigore del decreto. Si tratta delle assunzioni pianificate dalle aziende.

Il primo a inaugurare la comunicazione pubblica di nuovi ingressi tributati al Jobs Act è stato l’ad di FCA Sergio Marchionne relativamente alle assunzioni programmate per lo stabilimento di Melfi. Il 12 gennaio in conferenza stampa dal salone di Detroit il manager italo-canadese aveva parlato testualmente di “mille lavoratori che senza il Jobs act sarebbero stati assunti come interinali”, correggendo così la posizione espressa nella primavera dell’anno prima quando aveva affermato che il Jobs act sarebbe stato poco influente, perché gli accordi di Fiat con i sindacati avrebbero permesso comunque all’azienda di portare avanti le proprie scelte. Con quel ragionamento Marchionne anticipava una questione che interrogherà con crescente interesse gli addetti ai lavori, ossia l’efficacia di quanto previsto dai contratti rispetto alla forza di legge del decreto, anche per quanto riguarda i licenziamenti disciplinari.
Il cambio di linea di Marchionne ha invece involontariamente puntato il dito verso un aspetto ben più comprensibile ai più in termini di effettività della riforma: il flusso di nuovi occupati. E così dal lunedì successivo la pubblicazione in gazzetta ufficiale continuiamo a leggerne. Confindustria non si è sbilanciata rispetto ai nuovi posti attribuibili al Jobs Act e ha formulato le sue proiezioni (positive) basandosi sugli incentivi della Legge di Stabilità. Nonostante ciò il ministro del Lavoro Giuliano Poletti dice di continuare a incontrare imprenditori che vogliono assumere; sappiamo che “Da Midac a Eataly le medie imprese scommettono sui posti targati Jobs Act” (L. Grion, La Repubblica 10 marzo 2015), e le confindustria locali riferiscono di un generale nuova attitudine all’ampliamento degli organici. Compaiono anche le singole storie di imprenditori come quella di chi ha “stabilizzato 2 dipendenti” (C. Peluso, Il Messaggero 10 marzo 2015) o avviato “il primo contratto a tutele crescenti in provincia”.

In termini di immagine questa linea di interventi è però favorevole solo al Governo, mentre rischia di essere controproducente per le imprese stesse, potenzialmente tacciabili di essere disposte ad assumere solo ora che hanno ottenuto l’opportunità, mal che vada, di licenziare un dipendente erogando poche mensilità di indennizzo. Dopo la sua conferenza stampa, anche Marchionne aveva dovuto ribadire quanto già detto, ossia che FCA avrebbe assunto comunque, specificando che il Jobs Act ha piuttosto il merito di rendere più attraente il nostro Paese agli occhi degli investitori stranieri. Del suo discorso dagli USA era infatti stata enfatizzata soprattutto la sottolineatura sul “sistema di regole che aiuta a gestire anche una potenziale contrazione del mercato”.

La gara alle assunzioni comunicate si fermerà inoltre presto, scontrandosi contro le denunce di quanti segnaleranno licenziamenti collettivi più facili e dando luogo a una “guerra di storie” tra sostenitori e detrattori del Jobs Act. Competizione mediatica della quale è difficile stabilire a priori vincitori e vinti.

E’ un peccato che le imprese non scelgano preventivamente un’altra linea, presentandosi come promotrici di iniziative di rete volte al ricollocamento, assumendo in anticipo il ruolo di protagoniste della flexicurity che verrà. Sarebbe un investimento in termini di corporate social responsability molto più redditizio nel tempo. Un esempio si trova nell’approccio all’outplacment di Bayer Italia che preferisce pagare di sua sponte la formazione e la riqualificazone dei dipendenti in esubero (vedi il commento all’integrativo Bayer).

Gioverebbe molto di più anche al Governo. Il vero bilancio sulla nuova riforma verrà infatti stilato dopo che saranno disponibili sufficienti dati, probabilmente in autunno quando saranno terminati gli effetti della stagionalità. La strada del recupero dei livelli occupazionali pre crisi è inoltre lunga. Più lunga anche di quanto indichi il dimenticato timing dei mille giorni che ha trasformato il programma di governo da una blitrkrieg a un long form. Basti ricordare che anche se ammontano a 800mila in tre anni, i nuovi posti previsti dal ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan dovuti alla combinazione di Jobs Act e Legge di stabilità, i disoccupati sono attualmente più di tre milioni. Perché i timidi segnali di nuova fiducia dei cittadini perdurino nel tempo, sarà quindi necessario non solo dimostrare che le assunzioni aumentano, ma anche che la durata della disoccupazione si riduce progressivamente grazie alle presenza degli operatori del mercato.

Una percezione che non è attualmente a disposizione nemmeno dei giovani a cui è stato destinata la Youth Guarantee, il programma di politiche attive più ambizioso della storia dell’Unione Europea.

Se la questione dell’occupazione viene posta in questi termini, il governo Renzi rivela notevoli difficoltà e ha commesso anche un errore comunicativo. Per la verità, stando a Garanzia Giovani, già il governo Letta aveva fatto lo sbaglio di non coinvolgere imprese e agenzie private del lavoro, mancando di sollecitare il loro interesse verso il programma.

L’attuale Governo ha però fatto della “dintermediazione dei corpi intemedi” un vero e proprio protocollo che sembra essere andato ben oltre l’utile superamento della concertazione e che ora rischia di andare a discapito dell’effettiva costituzione di sistema di politiche attive efficiente. Il requisito fondamentale perché ciò accada è la responsabilizzazione dei diversi attori che costituiscono la rete della flexicurity. Su questo fronte sarebbe quindi auspicabile qualche forma di coinvolgimento, maggiore non solo di quella riservata alle parti sociali nella riforma del lavoro, ma anche di quella proposta con Garanzia Giovani.

Invece l’attesa di cui si è caricata la venuta delle tutele crescenti, le ha ormai assegnato le caratteristiche di un’apertura quasi magica a un nuovo orizzonte epocale. Orizzonte che dovrà realizzarsi quasi automaticamente, ora che le antiche resistenze sono state vinte. E’ l’esatto contrario dell’appello al ruolo delle parti. Cosa che a Matteo Renzi non è mai interessata. Il messaggio non è mai stato “Ognuno faccia la sua parte”, ma piuttosto: “ognuno si faccia da parte”, “lasciate fare”.

Chi si occupa di comunicazione politica sa quanto difficile e quanto centrale sia riuscire a compattare l’uditorio in un “noi”. Ma nella narrazione di Renzi ciò non ha mai a che fare con una chiamata alla coscienza collettiva, non è mai una invocazione alla responsabilità individuale, che pure invece emerge in qualche modo dalle nuove norme. Il Jobs Act propone ormai ai cittadini una speranza passiva, una rimozione dell’inquietudine seduta sull’attesa di inesistenti automatismi nel mercato del lavoro.

L’unica forma di coinvolgimento del Governo è stata in negativo: dichiarando di aver smascherato le aziende, di avere tolto loro gli alibi per non assumere. Abbiamo visto come le imprese stiano rispondendo, con il rischio di confermare lo schema proposto da Renzi. Scarso appello invece alla disponibilità al cambiamento da parte dei lavoratori. Salto netto dei sindacati.

Un piccolo segnale correttivo viene dalla probabile apertura a una funzione di servizio per il sindacato nel mercato del placement. “Concessione” risultante secondo alcune indiscrezioni da uno dei decreti attuativi. Un indizio, forse, che il Governo si è reso conto di aver bisogno di qualche alleato in più per navigare verso il futuro del lavoro. Ora bisognerebbe anche comunicarlo.

Francesco Nespoli
Adapt Research fellow

Jobs Act, quando finisce la gara delle assunzioni annunciate?

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