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Sta diventando un problema tangibile. Ogni anno di più. E rischia di avere ripercussioni politiche importanti: la migrazione di massa dovuta ai cambiamenti climatici. Ne parla un articolo pubblicato sul numero di Nature del 14 gennaio di quest’anno e firmato da David López-Carr e Jessica Marter-Kenyon

Il fatto che i cambiamenti climatici costituiscano un pericolo per la sicurezza e inducano lo spostamento, più o meno permanente, di intere comunità non è una previsione. E’ qualcosa che già si sta verificando.

Decine di migliaia di persone che vivono in più dell’85% dei villaggi dell’Alaska entro dieci anni non potranno più abitare le loro case, le fognature e gli acquedotti dei loro villaggi non saranno più utilizzabili. E tutto questo a causa di inondazioni ricorrenti prodotte dell’innalzamento del livello del mare causato dallo scioglimento dei ghiacci e del permafrost. Nel 1998 e nel 2000 i 400 abitanti di Kivalina (uno dei villaggi dell’Alaska interzati dal fenomeno) hanno votato per spostare il loro villaggio in un posto più sicuro. Ma per motivi burocratici non hanno avuto successo.

Situazioni analoghe si verificano in Nuova Guinea, in Cina e nel Vietnam dove molti villaggi sono già stati spostati in posti più sicuri. E più di una dozzina di paesi in via di sviluppo, tra cui l’Uganda, hanno presentato alle Nazioni Unite i loro progetti di nuovi insediamenti per garantire la sicurezza delle popolazioni. Si prevede che entro il 2050 i pericoli connessi al cambiamento del clima, come inondazioni, salinizzazione dei terreni, erosione costiera e siccità produrranno lo spostamento di centinaia di milioni di persone in tutto il mondo.

Solo dal 2010 si è cominciato a discutere seriamente del problema a livello internazionale. E la scienza ha iniziato ad occuparsi delle conseguenze dei cambiamenti climatici sulle popolazioni. Ci sono domande importanti a cui cercare una risposta. Ad esempio: quanto deve essere grave un pericolo – non importa se reale o se solo percepito – per indurre la migrazione? Su che base decidere se permettere spostamenti individuali o coordinati di intere popolazioni? Come fare a ridurre al minimo l’impatto sociale, economico e psicologico di questi movimenti di massa?

Negli ultimi 20 anni il fenomeno dei nuovi insediamenti ha interessato più di 300 milioni di persone, principalmente nei paesi in via di sviluppo. Ma è stato dovuto a programmi di conservazione dell’ambiente o di urbanizzazione o di sviluppo economico/industriale. In molti casi contro il volere delle popolazioni creando traumi e problemi di disadattamento non risolvibili semplicemente con compensi economici.

Nel caso di spostamenti indotti da cambiamenti climatici spesso la migrazione è considerata l’ultima spiaggia e le popolazioni tendono a tornare alle loro terre non appena il pericolo immediato è cessato. Ma questo non sempre è possibile.

Recentemente sono partite alcune iniziative che si occupano di definire le linee guida da seguire nel caso di migrazioni e nuovi insediamenti. Questo è il caso della Nansen Initiative, voluta dai governi norvegese e svizzero, che prevede incontri annuali per stabilire le politiche migliori da tenere nel caso di spostamenti di popolazioni attraverso i confini nazionali. E dello stesso problema si occupa The Peninsula Principles on Climate Displacement within States.

L’obiettivo è quello di evitare il più possibile migrazioni e di tutelare i diritti delle persone che si sono spostate a causa di cambiamenti climatici

Gli stati si trovano oggi di fronte all’esigenza di sviluppare un sistema di leggi che riguardino i disastri ambientali, per identificare le risorse adeguate per affrontarli soprattutto per quanto concerne i movimenti di popolazioni.

Un problema reale che va affrontato discutendone in modo razionale senza nascondersi dietro posizioni di paura.

 

 

I cambiamenti climatici e i flussi migratori

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