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“Il soccombente è crollato a terra”. – Thomas Bernhard

 

E’ possibile vincere e, con ciò, profetizzare la propria sconfitta?

Sì, è possibile. Matteo Renzi è un caso esemplare di questa paradossale possibilità. Molti elementi dimostrano questa singolare condizione storico-politica.

1. Renzi è diventato presidente del consiglio su diretta richiesta di Napolitano, dopo avere conquistato la leadership di un partito che aveva fallito il progetto originario di fondere le tradizioni comunista e cattolico-democratica nella cornice di un riformismo di ampio respiro, come riconosciuto, con onestà intellettuale, da D’Alema già alcuni anni fa. E’ il leader di un partito nato come partito-stato per eccellenza e ridottosi infine a rivisitazione empirica della Dc di sinistra con pendant di potentati locali e nuovi mentori di cordate di amministratori senza radici culturali. L’origine di questa leadership pesa ancora su questo premier senza radici e con legami territoriali saldi, ma oggi sotto schiaffo. Una delle leggi della politica, da sempre, richiama a considerare come variabile centrale di ogni azione riformatrice e visione strategica la cultura politica di riferimento e la sua declinazione puntuale, in modo da costruire alleanze e maggioranze omogenee e stabili nel tempo. Invece, ci troviamo di fronte un politico “pop” che, in forza di questa variante “pop”, è riuscito a cavalcare la tigre del rapporto spregiudicato – secondo la base comunista del Pd – con Berlusconi, quest’ultimo “pop” ben prima di lui, ma con una personalità e struttura di leader superiore a quella dell’ex sindaco di Firenze. Entrambi frutto della destrutturazione, Renzi, tuttavia, dispone soltanto di passione occasionalistica ovvero tatticistica e manovriera nel breve periodo, dopodiché si perde nell’adesione alle direttive europee anche quando minano l’economia nazionale – le sanzioni alla Russia ci fanno perdere ogni giorno qualcosa come 60 milioni di euro in esportazioni – e/o in comparsate deboli, per usare un eufemismo, sullo scenario europeo e internazionale (l’intervento al Parlamento europeo e Davos, esempi preclari di ciò).

2. L’operazione sulle banche popolari dimostra inoltre che l’idea di partito nazionale sia del tutto accessoria e ormai svuotata di qualsiasi contenuto nel Pd. Castrare le popolari rendendole manu militari spa equivale a operare sul fronte della salvezza di MPS e Carige, e su questo non ci sono dubbi, ma anche a cedere alla visione sciattamente globalista e panfinanziarista secondo la quale – contrariamente a quanto sosteneva un economista che dovrebbe essere letto e riletto dalle parti del Pd, Giacomo Becattini – contano i dividendi bancari speculativi e ad uso e consumo di chi ha garanzie pronte e non il flusso di credito per progetti e ristrutturazioni economiche concrete e a favore dello sviluppo dei territori. Oggi tutti, con un certo facile snobismo, aggrottano le sopracciglia quando si nominano i territori e si trattano questi ultimi, inclusi gli attori economici e gli stakeholder in essi operanti, come si trattavano, negli anni ’90 del secolo scorso, in pieno regime di polizia anti-politica, i “professionisti” della politica e lo strumento del proporzionale, considerato la sentina di ogni male e malversazione. Sono idiozie ideologiche e manifestano una debolezza e una subalternità culturale e politica inaccettabili per chi voglia candidarsi alla guida di un Paese come l’Italia per i prossimi anni a venire. Chi pensa oggi di vincere – è il caso di Renzi – dopo aver destrutturato almeno in potenza le popolari rischia di non avere ben chiaro il rapporto tra le dinamiche territoriali e il consenso politico, oppure, peggio, rischia di apparire cinico e scaltro ma solo ai fedelissimi, perché, nei fatti, è e rimane velleitario. Anche in questo caso, la cultura politica assente e l’occasionalismo e l’adesione a contingenze e sinecure tattiche, oltre a mortificare la politica, rendono grottesco ogni balzo in avanti del governo: la classica vittoria di Pirro.

3. Gli equilibri e i rapporti di forza in Parlamento. Renzi può anche portare a casa Italicum e incassare pezzi di riforma costituzionale, ma si troverà di fronte Mattarella pronto a cassare molto di quella nuova Carta – come prevede Rino Formica, uno dei pochi vecchi leoni che capisce di politica – e, infine, sarà messo all’angolo nel suo stesso partito, perché i nuovi sostenitori, definiti anche in questo caso “responsabili” e finanche “fondatori” del Pd, e dunque legittimati a fare di quest’ultimo “partito” movida da sliding doors, diventeranno spine nel fianco: se non hai salde radici nella politica vera, quella dura, parlamentare, e vieni proprio da quei territori che tu oggi mortifichi con la castrazione delle popolari, non puoi reggere l’urto di un ritorno di fuoco dei frustrati, ieri tuoi sodali. Se devi scegliere degli amici, preoccupati di pagarli bene, subito, come sapevano gli antichi Latini, altrimenti rischi di averli contro al primo stormir di fronde. Renzi è e rimane un amministratore di condominio tirato a lucido per l’occasione e questo marchio di fabbrica può andare ancora bene finché ti comporti come tale e accetti la dura legge dei giochi alti, ma quando ti fai una legione di nemici non ti salva più nessuno, quando, cioè, gli indiani, traditi, cercano il tuo scalpo. Ma oggi questo sembra un ragionamento astratto e perfino da vecchia zia, solo che, come scriveva Longanesi, “ci salveranno le vecchie zie”.

4. Renzi, per salvarsi ancora una volta, ha costruito un dispositivo salva-vita che, però, è così perfetto da risultare non agibile ed efficace. E’ leader di un partito che raduna più Dc della vecchia Dc e questo non aiuta mai, come insegna la storia; ha una sinistra che vorrebbe infilzarlo e poi esporre il suo cadavere a Largo Chigi; non può più contare su Forza Italia e su Berlusconi, non foss’altro che per l’impossibilità di proporre alcun patto col Pd senza rompere ciò che già è largamente incrinato nell’area maggioritaria del centrodestra; non ne ha imbroccata una con le “riforme” e, anzi, ha creato voragini ulteriori di spesa pubblica e debito pubblico; è logorato da due precedenti “tecnici” di governo che, oggi, col terzo in corso, stanno pesando sul popolo sovrano che, senza risultati sul piatto, diventa sempre più insofferente nei confronti del suo approccio “pop” e parolaio. In sostanza, e lo dico a febbraio, anticipando quanto scriveranno commentatori più quotati di me e profumatamente pagati dai rispettivi giornali, Renzi ha già chiuso. Può raccattare qualche buon colpo in Parlamento; può assoldare nuovi ascari devoti per interessi alla sua causa, ma la sua stagione come premier è già finita, è solo una questione di tempo, e non molto. Formica ha fatto una previsione: si voterà tra la fine del 2015 e l’inizio del 2016. Ci sta; io dico che, entro Pasqua, il climax politico si farà incandescente e la cornice internazionale – con una deflazione da tormento come quella attuale – non aiuterà Renzi. Mattarella, a quel punto, saprà perfettamente cosa fare. E lo farà.

 

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