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Una confusa sfilata di false soluzioni e specchietti per le allodole. Purtroppo, a voler utilizzare la brevitas del Twitter- linguaggio così caro al nostro premier – non può essere molto diversa da questa la definizione del tanto annunciato Jobs Act.

I decreti attuativi prospettati hanno tutte le sembianze di un curato esercizio di forma pensato allo scopo di apparire moderni e a la page, secondo le categorie in voga nel favoloso mondo di Renzi, ma risultano del tutto incapaci di risolvere, anche solo parzialmente, i molti problemi economici strutturali che incalzano. Sono molto efficaci, al contrario,  nel mortificare i diritti dei lavoratori, faticosamente conquistati in anni e anni di sacrifici e battaglie.

Un sindacato non può accettarlo. Non può acconsentire a che un atto discriminatorio come un licenziamento ingiustificato sia sanato con una manciata di spiccioli, senza il reintegro. Non può accondiscendere a una filosofia del lavoro che fondi lo sviluppo della produttività sulla precarietà. Non può annuire a testa bassa ai quotidiani tentativi del Governo di mettere il silenziatore al dialogo sociale. Troppo distante è la visione di SNFIA.

Imprenditori e impresa del Terzo Millennio – nella nostra concezione – hanno la finalità di includere e non di escludere. Non possiamo che dire no all’ingiustizia nel mondo del lavoro e a una legislazione che stabilizza il conflitto generazionale. Siamo convinti che la produttività moderna debba passare dall’inclusione, dalla valorizzazione delle diversità, dalla sostenibilità sociale.

La sfida della contemporaneità è il riconoscimento dei bisogni sociali e non la discriminazione che una scellerata abolizione dell’Articolo 18 vorrebbe sdoganare. A maggior ragione per il fatto che, preme ripeterlo, le misure in discussione sono inutili. Non aiutano a far ripartire l’economia, né servono a recuperare posti di lavoro: il lavoro non si trova licenziando, ma al massimo detassando e già oggi – prima che il Jobs Act diventi legge operativa – esistono gli strumenti di licenziamento utili a salvare un’azienda. Così come appare difficile trovare il senso di un provvedimento che non contempla giudizio di proporzionalità tra il fatto contestato e la conseguente sanzione: un ritardo sul lavoro può valere il licenziamento? La risposta è a discrezione totale del datore di lavoro, che non può in nessun modo essere obbligato al reintegro.

Non vi è, poi, alcuna innovazione in misure, quali quelle in discussione, che non concedono nulla alle piccole e medie imprese che con fatica e coraggio reggono il nostro Paese. Misure che consegnano la golden share dell’economia agli imprenditori dei grandi gruppi, senza promuovere realmente il merito né mai considerare il lavoro fondamentale strumento identitario per l’uomo, oltre che fonte di sostentamento. Un quadro che lascia il lavoratore ostaggio di qualsiasi imposizione (giusta o meno che sia) del datore di lavoro, cristallizzando la precarietà permanente come perfetta forma di ricatto.

L’unico risultato possibile delle nuove misure è un personale aumento di credito del loro ideatore Matteo Renzi presso i tavoli europei, ai quali il premier offre in pasto questo feticcio, dall’utilità economica pari a zero. Per di più con una conseguenza molto pericolosa: l’incremento, nel mondo del lavoro e non solo, di una cupa atmosfera di aggressione, alimentata dal venir meno dei principi di giustizia di base.

Non stiamo parlando di fattispecie astratte. Nel mondo assicurativo si è presto passati ai fatti con la prima applicazione pratica del Jobs Act. Si tratta del recentissimo accordo di integrazione fusione con UnipolSai, che recepisce appieno la filosofia dei decreti e cancella di colpo 40 anni di sacrifici dei lavoratori. La firma di FISAC CGIL, FIBA CISL e UILCA sancisce il pre pensionamento di 321 lavoratori in esubero dell’assicurazione Unipol a fronte di 150 nuove assunzioni di giovani, che verranno inquadrati con un contratto dall’ambigua definizione di “stabile”. Un fatto gravissimo, che ha il suono tetro del rinnegamento di un’intera e gloriosa storia di tutela dei lavoratori, dal momento che a patrocinarlo è proprio la UnipolSai, simbolo storico delle Cooperative rosse e delle loro battaglie sociali. E, soprattutto, un accordo che è completamente incomprensibile poiché consumato a distanza di pochi giorni dallo sciopero generale cui hanno aderito con convinzione anche i lavoratori assicurativi. In pratica, le stesse sigle sindacali che lo scorso 12 dicembre hanno patrocinato lo sciopero generale contro il Jobs Act di Renzi, ovvero Cgil e Uil, ora sottoscrivono con UnipolSai un “accordo per le allodole” che lo mette in pratica (al quale le sole due sigle autonome di categoria – SNFIA e FNA – hanno detto no). Camusso e Barbagallo hanno davvero cambiato idea? Evidentemente, la politica docet, la coerenza di questi tempi è davvero un optional.

Marino D’Angelo, segretario generale di SNFIA

Perché non festeggiamo per il Jobs Act

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