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Il verde-oro è sbiadito. Nel tempo trascorso dal tramonto degli sciamani del calcio non un solo fromboliere è apparso per rinnovare un mito. I carioca hanno sempre detto che Dio è brasiliano. Se è così, ultimamente deve essersi voltato da un’altra parte.

Neymar, Oscar, Fred, Paulinho saranno pure dei “campioni” considerando gli standard contemporanei, ma certamente non potrebbero fare neppure le controfigure dei loro antichi colleghi che attraversavano il campo di gioco con falcate e invenzioni frastornanti, allegri sacrifici resi ad Eupalla (indimenticabile Brera cosa diresti oggi dei balbettii di questi tardi epigoni di Jahirzino, Tostao, Garrincha, Socrates, Careca, Cerezo, Falcao, tralasciando il divino Pelé?) che li ringraziava indirizzando i tiri nell’angolo giusto.

Era simpatica la Seleçao, ora non lo è più. Corrotta dal minimalista calcio europeo, non fa fremere, non produce adrenalina in chi la guarda. E’ piatta e sciatta. E’ furba e tatticamente poco intelligente. Soprattutto non è spettacolare. E poi quel Neymar che dà l’impressione di trarsi dalle difficoltà tentando falli inesistenti, non assomiglia ai disinvolti gladiatori giocosi del tempo che fu.

Il Brasile vince, ma non ha più un’anima. Da tempo. E così può anche mettere a segno un rigore generosamente concesso tanto per far capire che questo mondiale non ha altri padroni, ma dà l’impressione di essere impaurito come se la sindrome del 1950 non l’avesse abbandonato.

Basta cantare l’inno nazionale con una forza ed una convinzione ammirevoli per spaventare ed incantare? Non credo. I croati, almeno, non si lasciano condizionare. Sono stati forgiati da ben altre prove negli ultimi decenni, per soggiacere al mito brasileiro, alla forza di una tradizione ormai scemata. Una volta il Brasile vinceva incantando con la pratica del cosiddetto futebol bailado. Le sole movenze che hanno tenuto gli occhi del mondo incollati ai teleschermi sono state quelle delle divine Jennifer Lopez e Claudia Leitte che, disgraziatamente, non hanno giocato.

No, non è simpatico il Brasile. Anche perché, insospettabilmente, vive di risentimenti. Lo prova un’assenza alla partita inaugurale. Un’assenza pesante e violenta come uno schiaffo alla memoria. Non c’era Alcides Ghiggia, l’ultimo sopravvissuto dell’incontro di sessantaquattro anni fa che mandò in Paradiso l’Uruguay e all’Inferno il Brasile che riteneva di aver già vinto la Coppa Rimet.

Ha 88 anni il grandissimo Ghiggia, il “nostro” Ghiggia eroe del Maracanà, che tra il 1953 ed il 1962 mandò in visibilio i tifosi della Roma e del Milan, ala destra dotato di un dribbling irresistibile, poi “oriundo” e dunque da italiano vestì per un paio d’anni la maglia azzurra, insieme con il compagno dell’impresa del 1950 Schiaffino: non ripeterono i fasti noti e fallirono con la nazionale la qualificazione ai mondiali in Svezia del 1958 battuta a Belfast dall’Irlanda del Nord per 2-1, quando sarebbe bastato il pareggio, proprio come al Brasile in quella finale crudele che porta il sigillo proprio dei due “italiani” Schiaffino e Ghiggia. Comunque, quasi sessant’anni dopo la storica partita del 16 luglio, il Brasile rese omaggio all’antico avversario dedicandogli un posto nella Walk of Fame dello stesso Maracanà. Ma allora, perché, come “testimone del tempo” non è stato invitato al mondiale brasiliano? Misteri della decadenza sportiva. Obdulio Varela e Moacyr Barbosa guardano e tacciono dal loro mondo lontano.

In attesa del debutto (problematico) dell’Italia che più acciaccata non potrebbe essere e di vedere all’opera la Spagna e l’Olanda (la prima in cerca di conferme, la seconda di riscatto), il Mondiale dei miliardi spesi male e delle speranze dei brasiliani traditi decolla nel circuito mediatico, ma a non nelle strade di Rio, di San Paolo, di Manaus, di Brasilia. Qui la violenza non si nutre del tifo e della passione sportiva, ma delle contraddizioni che il calcio, suo malgrado, alimenta. La modernità ha snaturato anche il futebol? Può darsi. Ascolto Marisa Monte, seducente artista carioca, canta “Nao è fàcil”. No, non è davvero facile amare. Neppure un Mondiale.

Il Brasile non ha più un'anima. Il taccuino mundial di Malgieri

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