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L’Henry L. Stimson Center, noprofit e nopartisan think tank di Washington specializzato in sicurezza globale che deve il suo nome al padre dell'”idealismo pragmatico”, ha diffuso in questi giorni i risultati del suo studioTask force on US drone policy“.

Tanto per (non) cambiare, ci risiamo: arrivano altre autorevoli critiche al sistema counter terrorism preferito dal presidente Obama. Secondo lo Stimson Center, l’uso ormai routinario dei velivoli a controllo remoto per l’assassinio mirato e premeditato dei terroristi, non solo risulta sempre più incompatibile con lo stato di diritto, ma può creare un terreno scivoloso verso l’instabilità nelle aree colpite, che può portare a nuove guerre e rappresaglie contro gli Stati Uniti.

Lo studio è stato redatto in modo indipendente, lontano dalle posizioni politiche che hanno più volte nel corso degli anni espresso le proprie critiche verso gli UAV, e grazie all’aiuto di personalità esperte nel mondo diplomatico e delle Forze Armate – su tutti, il generale in pensione John Abizaid (ex comandante del Comando centrale degli Stati Uniti) e Rosa Brooks (professoressa universitaria alla Georgetown, che Obama aveva voluto al Pentagono come esperta di diritto).

Gli oltre 376 attacchi effettuati tra il 2004 e il 2013 (con un picco negli ultimi anni) in Pakistan per esempio, hanno prodotto un numero di morti compreso tra le 2500 e le 3600 persone (dati Bureau of Investigative Journalism), ma non hanno portato grossi effetti sulla lotta al terrorismo: sono stati colpiti importanti leader talebani (come Hakimullah Mehsud), che tuttavia sono stati prontamente sostituiti. Anzi, come accaduto in Yemen, o in Somalia, o nello stesso Pakistan, gli attacchi hanno prodotto rappresaglie importanti – contenute, ancora, nei rispettivi territori – culminate ultimamente con i gruppi terroristi mossi in vere e proprie offensive, come nel caso dell’Aqap in Yemen, contro cui l’esercito di Sanaa si è visto costretto a condurre un’importante offensiva di terra, che dura da mesi, per fermarne l’avanzata.

Per non parlare delle vittime civili: solo in Pakistan sembra che possano corrispondere ad un terzo del totale. Circostanza che porta ancora in alto l’asticella del contesto giuridico. Le norme che regolano i conflitti sono superate dagli scenari di attacco drone. Molto spesso gli strike avvengono in momenti di “non-battaglia”, situazione che li porta poterli configurare come veri e propri omicidi. Inserire in questa enorme problematica, anche le pessime conseguenze delle vittime civili, diventa una circostanza al limite dei diritti umani.

Ma non basta, perché l’esasperato uso di Predator e compagni, ha sposta anche l’asse della ricerca militare: sono sempre di più le nazioni che si stanno attrezzando indipendentemente, deviando i fondi della Difesa verso laboratori di ricerca e sviluppo sugli UAV. Nazioni non proprio “amiche” degli Stati Uniti, come l’Iran, hanno sviluppato modelli propri – molti basati su tecnologia americana copiata o rubata – visti già operativi in teatri di guerra (gli Shahed 129 iraniani sono stati beccati in Siria mesi fa e in Iraq in questi giorni, girano i più piccoli Ababil). E pure la Cina avrebbe messo a disposizione fondi quasi illimitati per lo sviluppo di quattro modelli diversi – uno di questi è stato individuato in ricognizione sopra al Mar Cinese Meridionale lo scorso anno.

Cosa succederebbe se l’ampia diffusione di questi velivoli, facesse sì che uno (o più di uno) finisse in mano dei terroristi? O se un paese straniero decidesse di avviare raid in territorio americano, magari per “cacciare” dei propri ricercati?

@danemblog 

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