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Lunedì Valdimir Putin ha dichiarato  (di nuovo) di aver ordinato il ritiro delle truppe russe dalle linee di confine dove erano state piazzate più di un mese fa (formalmente per un’esercitazione nelle regioni di Rostov, Belgorod  e Bryansk). La Nato (di nuovo) ha risposto che dalle osservazioni satellitari, i fatti non danno riscontro delle parole del presidente: le truppe sono ancora tutte lì.

Sempre ieri, il segretario dell’alleanza Rasmussen, nella conferenza stampa mensile, ha espresso «profondo dispiacere» sul mancato ritiro, evidenziando che «le azioni di Putin hanno indotto la Nato a rivedere i piani di difesa» – tradotto, la Russia prima era vista come un alleato, adesso come un potenziale ostile.

Mentre a Sloviansk si continua a combattere – un soldato ucraina è morto sotto i colpi di mortaio dei filorussi, durante una battaglia per il controllo di una torre di trasmissione sul monte Karachun – la diplomazia di Putin continua una sorta di doppia faccia. Così come dichiara il ritiro, ma di fatto i militari restano, altrettanto fa con le elezioni in programma per domenica prossima. Se Putin apre, sotto la guida mediatrice dell’Osce, di mettere in dubbio la legittimità delle consultazioni se ne occupa il ministero degli Esteri – che, come anche il presidente, sottolinea la necessità prioritaria di bloccare l’azione repressiva del governo nelle aree orientali.

La strategia del Cremlino nelle aeree ribelli, si è un po’ modificata: attualmente il sostegno di Mosca è molto più indirizzato verso gli oligarchi ucraini come Rinat Akhmetov e Igor Kolomoisky, che verso i combattenti. Chiaro tentativo di decidere su chi beneficerà del nuovo sistema politico in Ucraina.

Palude. Putin prova ad uscirne anche per necessità. Oggi è in programma un importantissimo vertice a Shanghai, dove il presidente russo incontrerà l’omologo cinese Xi Jinping. Sul tavolo, tra le varie cose, balla un accordo di fornitura del gas. la Russia verserebbe nei gasdotti cinesi 38 miliardi di metri cubi all’anno per trent’anni. Uguale: 456 miliardi di dollari. Cassaforte per la malmessa economia di Mosca. Ma la Cina, si sa, non gradisce troppo le politiche violente e le interferenze sulla sovranità nazionale altrui – inoltre in Ucraina ha interessi legati soprattutto al landgrabbing -, ed è così che Putin ha cercato di andare da Xi ripulito. In questo, una lettura della scelta di annunciare ieri il ritiro, l’atto tanto richiesto di de-escalation, che non sarebbe una casuale coincidenza.

Così come si potrebbe non pensare alla coincidenza per quanto riguarda quel che succede tra Cina e Stati Uniti. Washington ha accusato Pechino di operazioni di cyberspionaggio industriale: i sistemi informatici di cinque aziende americane (Alcoa, Allegheny Technologies, Solar World, US Steel, Westinghouse Elecetric) sarebbero stati violati per rubare segreti aziendali – nella lista ci sarebbe anche il sindacato dei lavoratori dell’acciaio.

Non è mai successo che l’America accusasse un governo straniero di un reato del genere – tra l’altro, il portavoce del ministero degli Esteri cinesi, ha risposto che secondo le rivelazioni di Snowden, gli Stati Uniti non erano nuovi ad azioni del genere in passato.

Nel malloppo secondo gli investigatori, ci sarebbero info commerciali per permettere facilitazioni sulla concorrenza (sleale) e su progetti di prodotti, che gli sviluppatori orientali avrebbero potuto copiare senza investimenti di tempo e denaro sulla ricerca.

La Cina ha definito «assurde» le accuse e ha parlato del rischio che si possano intaccare i rapporti diplomatici tra i due paesi, ma sul sito dell’Fbi sono apparse addirittura le schede dei ricercati. Sarebbero, secondo quanto scrive il Washington Post, funzionari governativi, appartenente ad un’unità specializzata in spionaggio industriale, che il governo cinese ha operativa a Shanghai.

 

 

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