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Il revisionismo e i commenti assolutori sul passato militarista del Giappone rischiano di far perdere a Tokyo la “guerra d’immagine” contro la Cina. La tesi emerge da un’analisi di Reuters nel mezzo delle tensioni che oppongono la seconda e la terza economia al mondo, divise da dispute territoriali nel Mar cinese orientale e dall’interpretazione della storia della prima metà del Novecento.

Si tratta di una vera è propria guerra”, ha spiegato all’agenzia britannica Shin Tanaka, presidente del FleishmanHillard Japan Group, società di comunicazione con sede nella capitale nipponica. Decisioni come quella del primo ministro, Shinzo Abe, di visitare il santuario shintoista Yasukuni, in cui tra i morti per la patria sono ricordati anche criminali di guerra di classe A, rischiano di inimicare le simpatie verso il Giappone. Contro la visita al santuario si erano espressi, inascoltati, anche gli Stati Uniti.

Alle reazioni di Pechino hanno fatto eco anche quelle sudcoreane, dove ancora vivo è il ricordo dell’occupazione nipponica iniziata negli anni Dieci del secolo scorso e il risentimento anti-giapponese è uno dei pochi temi su cui coreani del Sud e del Nord si trovano d’accordo, in particolare per questioni che il governo nipponico si ostina a non voler affrontare, come i risarcimenti per le donne costrette a prostituirsi per le truppe imperiali durante la Seconda Guerra Mondiale.

Un tentativo di distensione in questo senso può essere intravisto nella recente visita a Seul dell’ex premier Tomiichi Murayama, che nel 1995 chiese scusa per le atrocità compiute durante il conflitto mondiale, e da tempo perora la causa delle cosiddette “comfort women”. “Giappone e Cina usano missili chiamati messaggi”, spiega ancora ancora Tanaka, “la realtà è che sono stati fatti danni in entrambi i Paesi”.

L’offensiva diplomatica e di pubbliche relazioni è andata avanti nelle ultime settimane. In Italia ne è una prova la lettera aperta dell’ambasciatore nipponico a Roma, Masaharu Kohno, pubblicata lo scorso 30 gennaio sul Messaggero. “L’articolo pubblicato dall’ambasciatore della Repubblica popolare di Cina il 12 gennaio scorso è l’ultimo esempio di una campagna propagandistica condotta in tutto il mondo dalle ambasciate cinesi per negare il cammino di pace perseguito dal dopoguerra dal nostro Paese”, scrive il rappresentate nipponico.

In questa guerra mediatica Pechino può vantare alcuni successi come l’inaugurazione ad Harbin, nel nordest della Cina, di un memoriale per commemorare la figura di Ahn Jung-geun, eroe dell’indipendenza coreana, che nel 1909 uccise il quattro volte premier nipponico Irobumi Ito. Proprio di questi giorni è invece la notizia della ritrosia dell’ambasciata statunitense a Tokyo a concedere interviste alla NHK, contro commenti revisionisti di alcuni dirigenti dell’emittente statale.

Per Katsuto Momii, presidente della Rai nipponica, le “comfort women” non furono sfruttate soltanto dal Giappone: costringere le donne a prostituirsi fu comune a diversi eserciti, ha spiegato. Mentre Naoki Hyakuta, componente del consiglio d’amministrazione, ha fatto scalpore negando il massacro di Nanchino del 1937, in cui secondo le fonti cinesi i giapponesi fecero almeno 300mila morti, in una delle pagine più tragiche dell’occupazione della Cina.

Lo scontro si è spostato anche in sede Unesco. L’amministrazione di Nanchino ha proposto i documenti sullo “stupro” della città, come è definito nella Repubblica popolare, come patrimonio dell’umanità. Quasi una risposta al tentativo giapponese di iscrivere nelle liste Unesco le lettere dei kamikaze.

Tuttavia, come scrive Ying Ma sul blog China Real Times del Wall Street Journal, gli sforzi cinesi per raccogliere solidarietà rischia di scontrarsi sia con i modi con cui porta avanti le proprie rivendicazioni territoriali sia per gli scontri con Washington in tema di diritti umani, moneta, proprietà intellettuale, spionaggio informatico. Colpa della percezione generale che vede Pechino come la minaccia per l’influenza statunitense nella regione.

Twitter: @AndreaPira

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