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Da quando la Fed ha eretto a feticcio della sua politica monetaria il tasso di disoccupazione, tutto il mondo guarda con occhio spasmodico le statistiche mensili Usa, col dito sul mouse pronto a comprare America e vendere resto del mondo non appena suonerà la campanella della fine ricreazione.

La Fed ormai lo sa. E siccome ha sperimentato nel maggio scorso quanto sia pericoloso giocare col fuoco della aspettative, il 19 marzo 2014 il FOMC della banca americana ha stabilito che per cominciare l’exit strategy il tasso di disoccupazione, si, vabbé, ma anche dell’altro, sciorinando altre variabili di tipo qualitativo, che hanno indotto gli operatori finanziari a ipotizzare che la Fed farà il primo ritocco di tassi non prima dell’inizio del 2015, come qualcuno aveva già previsto.

Ciò non toglie che il tasso di disoccupazione americano, arrivato a un rassicurante 6,7% (l’obiettivo Fed era il 6,5%) continui ad esercitare il suo fascino fra gli analisti economici. Non ultimi quelli della Banca centrale europea, che, molto perfidamente, hanno svolto un approfondimento sull’andamento non tanto del tasso di disoccupazione, che è noto, ma su quello di partecipazione.

Ricordo che il tasso di disoccupazione si ottiene dividendo il totale dei disoccupati che cercano lavoro per il totale risultante dalla somma fra lavoratori occupati e disoccupati in cerca di lavoro. Come si vede, la definizione statistica ha poco a che vedere con quella che potremmo trarre dal senso comune, secondo la quale i disoccupati sono quelli che non hanno lavoro e basta.

Ciò in quanto la statistica distingue, per fini statistici, fra coloro che sono senza lavoro perché non lo trovano e quelli che sono senza lavoro perché non lo cercano.

Per distinguere queste due popolazioni è stato creato un altro indicatore, che si chiama tasso di partecipazione, che in pratica si ottiene dividendo il totale degli occupati e dei disoccupati in cerca di lavoro (ossia quella che la statistica chiama forza lavoro) per il totale della popolazione attiva, di solito i 15-64enni.

Un tasso di partecipazione basso vuol dire che la forza lavoro di un paese è bassa. Ma questo non vuol dire che i cosiddetti inattivi siano tutti ricchi rentiers. Può voler anche dire, e questa di solito è la circostanza più comune, che molti hanno rinunciato a cercare lavoro e non si sa bene come vivano. Magari grazie all’assistenza pubblica, va da sé.

Premessa noiosa, ma necessaria per capire l’analisi della Bce.

Quest’ultima nota, sempre più perfidamente, che “gran parte del calo del tasso di disoccupazione, sceso dal 7,9% al 6,7% fra dicembre 2012 e febbraio 2014, va tuttavia ricondotta al minore tasso di partecipazione, che, nel 2013, è diminuito dello 0,8%. Rimangono al tempo stesso su livelli elevati le misure più ampie della disoccupazione comprendenti i “lavoratori scoraggiati” e quelli a tempo parziale che preferirebbero posizioni a tempo pieno, oltre che i disoccupati di lungo periodo. Anche gli andamenti del rapporto fra occupati e popolazione e dei tassi di turnover occupazionali descrivono un quadro meno positivo del mercato del lavoro”.

Chi mastica le cronache economiche avrà già capito dove vuole arrivare la Bce. Ma può essere utile fare un esempio a giovamento di quelli meno abituati a ragionare su queste cose.

Mettiamo che la nostra popolazione attiva sia composta da 10 persone. Di queste, sei partecipano al mercato del lavoro (quindi sono forza lavoro). Di questi sei, cinque sono occupati e uno è disoccupato. Il nostro tasso di disoccupazione lo otteniamo dividendo 1 (numero disoccupati) per la forza lavoro (1+5). Quindi otteniamo che il tasso di disoccupazione è pari a 1/6, ossia al 16,66%.

La banca centrale di quel paese allora inizia a pompare denaro nell’economia al fine, di sicuro nobile, di riportare il tasso di disoccupazione a un livello più basso. Evita accuratamente di parlare di fini più reconditi. Tipo favorire il deleveraging della banche, o far ripartire i mercati finanziari inceppati per mancanza di acquirenti di debiti, o magari rivitalizzare il mercato immobiliare.

Comunque. La conseguenza di tanta premura è che i partecipanti al mercato del lavoro diminuiscono da sei che erano a cinque. Magari perché il nostro unico disoccupato, ormai scoraggiato, ha smesso di cercare lavoro. Sicché si compie il miracolo. Se calcoliamo il nostro tasso di disoccupazione, scopriamo che adesso vale 0/5. Ossai zero.

Giù applausi alla Banca centrale.

Al netto della semplificazione, questo è quanto è accaduto negli Stati Uniti grazie (anche) alle politiche espansive della Fed. Forse perché al mercato del lavoro americano non ha giovato l’overdose di flessibilità inflittagli negli ultimi trent’anni? Alcuni dicono che è così.

Più interessante notare, come nota ormai palesemente maligna, la Bce che “la caduta del tasso di partecipazione osservata negli ultimi anni appare anomala nel confronto con i cicli economici precedenti”. Cicli, in cui, vale la pena sottolinearlo, non c’era ancora il quantitative easing della Fed.

Anzi: “Il tasso di partecipazione, a differenza di quanto osservato in passato, non è migliorato con la ripresa, iniziata nel 2009, ed è anzi diminuito del 3% fra dicembre 2007 e febbraio 2014, mentre nell’area dell’euro è aumentato dell’1,2% fra la fine del 2007 e il terzo trimestre del 2013, con un impatto sfavorevole immediato sul tasso di disoccupazione. Questa caratteristica potrebbe in parte spiegare la divergenza fra gli andamenti del tasso di disoccupazione nell’area euro e negli Stati Uniti”.

Ovviamente, come sempre accade nelle cose statistiche, la demografia, nel caso americano ha giocato un ruolo importante nel calo della partecipazione al mercato, che la Bce stima in circa un terzo del totale. Un altro fattore viene individuato nella crescita degli iscritti ai programmi di copertura previdenziale. Ciò potrebbe aver incoraggiato qualcuno a trasformarsi in inattivo.

Il terzo elemento individuato è stato che “la scarsità di impieghi ha indotto i giovani a proseguire gli studi per migliorare le loro opportunità”. E in effetti la quota di 16-24enni ancora in fase di istruzione è notevolmente aumentata dal 2007 in poi.

Potremmo proseguire con le analisi, ma sarebbe solo un esercizio intelletuale. Vale la conclusione della Bce: “Non bisogna limitarsi al tasso di disoccupazione per monitorare gli andamenti del mercato del lavoro. Un esame più ampio mostra che le condizioni in tale mercato restano nell’insieme deboli e caratterizzate da un eccesso di offerta”.

Per la cronaca, nel 2000 il tasso di partecipazione era di oltre il 67%. Nel 2008 quotava ancora il 66%. Oggi, dopo anni di diluvio monetario, è intorno al 63%. Fra un po’ arriveranno al nostro 55%.

Finalmente si è scoperto il vero valore aggiunto del quantitative easing.

Che poi è l’effetto che fa sempre il denaro facile.

Fa diventare choosy.

Lavoro: anche gli americani diventano choosy (grazie anche alla Fed)

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