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Dall’indomani del pronunciamiento della debordante sentenza Esposito, la satira politica d’improvviso si sentì come azzittita, derubata del suo diritto a sferzare il potere con veemenza e furore iconoclasta.

La caduta del Cavaliere nero, per due decenni figura centrale e imprescindibile della frusta dileggiante di comici, vignettisti e autori dalla penna pungente e persino spavalda, pareva avere ammutolito un esercito di comprimari televisivi, teatrali e giornalistici, cui era stato sottratto l’oggetto stesso d’una satira a senso unico, facile e ben pagata, specie con danaro pubblico elargito ai media sovvenzionati.

La satira a lungo balbettò; sembrò ritrovare un momento di vitalità quando il senato s’andò a impegolare in un’autolimitazione di libertà degna del più vieto borbonismo; ma, al momento della decadenza (a effetto retroattivo, una ingiuria giuridica), tornò a trovarsi deprivata della stessa voglia di graffiare il potente disarcionato in via definitiva.

Molti dei professionisti d’un mestiere davvero difficile persero la testa: accucciandosi, incapaci di immaginare un futuro per sé, in assenza dell’odiato «nano». I più validi – e che, un tempo, sapevano bene come non si potesse prendersela a vita con una sola persona e di necessità occorresse fare virtù, cercarono di cambiare obiettivo; osando prendere per i fondelli le new entry istituzionali: le Boldrini, i Grasso, gli Enricoletta, i Matteo Renzi staisereno. Ma s’accorsero di non possedere più la verve indispensabile per farsi applaudire dalle masse sanguigne: quelle che nel Colosseo invocavano quasi sempre il pollice verso dell’imperatore contro i cristiani e a favore delle belve.

Si tennero persino dibattiti: sulla progressiva inefficacia della satira, se limitata alle seconde figure e incapace di suscitare passioni e consensi autentici. Alcuni di tali interrogativi vennero sollevati sui giornali, altri in rubriche televisive. Perché i maestri, i disegnatori satirici – i Giannelli, i Vauro, i Vincino, per indicarne i più noti – erano essi stessi testimoni d’un crollo di spirito critico, di arguzia dimezzata, di sbandamento culturale. Certo, il ricorso a qualche battuta macabra poteva dare l’impressione di una vitalità satirica fortemente declinante.

Poi, alcuni giorni fa, la semiresurrezione d’un Cav, tornato in circolo, benché in vigilata agibilità politica, ma pur sempre alla testa di un esercito elettorale rispettabile (paragonabile ad un popolo che sembrava averne quasi rielaborato il lutto e, invece, riguadagnava il suo sovrano, un po’ ammaccato ma vitalissimo e combattivo), ha ridato aria vitale anche alla satira. Che intanto usciva dalla rianimazione per andare in corsia: a ritrovare una comoda riabilitazione.

Berlusconi e il ritorno della satira

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