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E’ arduo parlare di “privatizzazione” di Poste SpA se il potere decisionale (ed il 60% delle azioni) resta nelle mani dello Stato (parte rilevante del 40% “ceduto al mercato” viene in effetti dirottato versi i dipendenti) e soprattutto se non viene effettuata una netta separazione tra le varie tipologie di attività, ossia il nodo dell’unbundling. 

Il tema venne sollevato durante il dibattito parlamentare quando Poste SPA nacque da una costola (un’azienda autonoma) del ministero, per l’appunto, delle Poste e delle Telecomunicazioni. I parlamentari che lo posero sul tavolo del dibattito, anche quelli che sedevano nei banchi della sinistra, non vennero ascoltati con il risultato che è stato creato un coreano chaebold all’italiana, con vizi (non le virtù) dell’Estremo Oriente coniugati con il particolarismo clientelare nostrano.

E’ naturale, quindi, che il problema dell’unbundling si proponga oggi. Con maggiore forza di ieri. Vale, però, la pena aggiornare ipotesi e tesi sulla base dell’esperienza effettuata dal Telecommication Act del 1996, il tentativo più ambizioso effettuato negli Stati Uniti di regolamentazione settoriale. Occorre tenere presente che Poste Italiana è nata all’inizio degli Anni Novanta, prima quindi dell’unbundling; in Italia il dibattito sull’unbundling è stato particolarmente intenso (in Parlamento) in occasione delle modifiche ordinamentali del 2006-2010, anche in occasione del “contratto di servizio universale” (ossia l’obbligo di consegnare posta anche nei villaggi più remoti) per ora valido sino al 2016, ma estendibile sino al 2026 (i maligni dicono che in parallelo con la cessione del 40% delle azioni ci sarebbe un lauto rinnovo, anticipato, del contratto).

Dal 1996 ad oggi, però, all’unbundling “made in Usa” sono state apportate varie modifiche di cui è bene tener conto nel nostro Paese. Uno strumento utile è un documento in via di pubblicazione da parte del Phoenix Center for Advanced Legal & Economic Public Policy Studies; ne sono autori George Ford e Lawrence J. Spiwak (per avere il testo integrale si scriva, anche a mio nome a george.ford@phoenix-center.org).

In effetti, negli Stati Uniti la versione originale dell’unbundling è durata una decina d’anni e, dalla metà del primo decennio di questo secolo, il Telecommication Act del 1996 è stato sostanzialmente disapplicato, in una prima fase, e modificato, successivamente. Varie le determinanti: a) aspettative non realistiche in termini di rapidità di ingresso nel mercato di nuove forme di comunicazioni “verdi”; b) difficoltà delle piccole compagnie di telecomunicazioni locali costrette a cedere quote di mercato senza ottenere benefici adeguati in comparti alternativi; c) il sorgere, e l’espandersi, di nuove tecnologie (quali le varie forme di servizi VOIP) non anticipati nel 1996, quanto meno in termini di rapidità di diffusione.

L’analisi del Phoenix Center for Advanced Legal & Economic Public Policy Studies conclude che mentre nel 1996 l’unbundling, quale previsto nel Telecommication Act era espressione di una “politica sensata” oggi ci vuole qualcosa di differente in grado di tenere sufficientemente in conto la concorrenza intermodale e le problematiche di incentivi ad essa inerenti. Attenzione, ciò non vuole dire abbandonare l’unbundling oppure “meno unbundling” ma un unbundling più sofisticato, meno rozzo.

E’ questa una missione che nelle prossime settimane e mesi si deve dare il Parlamento, affinché del relativamente nuovo assetto di Poste Italiane giovino beneficino tutti gli italiani.

Un paio di domande sulla privatizzazione di Poste Italiane

E’ arduo parlare di "privatizzazione" di Poste SpA se il potere decisionale (ed il 60% delle azioni) resta nelle mani dello Stato (parte rilevante del 40% "ceduto al mercato" viene in effetti dirottato versi i dipendenti) e soprattutto se non viene effettuata una netta separazione tra le varie tipologie di attività, ossia il nodo dell’unbundling.  Il tema venne sollevato durante…

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