Ferruccio de Bortoli lascia la guida del Corriere della Sera. Lo farà nell’aprile 2015 contribuendo a scegliere il nuovo direttore del primo giornale italiano. Una notizia che aleggiava da tempo, resa consistente dai conflitti interni al Patto di sindacato proprietario di Rcs.
Le parole con cui il giornalista si congeda dalla gloriosa testata sono eloquenti: “Ho sperato che vi fosse la possibilità di un nuovo inizio ma, verificato che non c’erano assolutamente le condizioni, alla fine ho accettato la proposta di uscita che mi è stata fatta dall’azienda. Tengo a precisare che non ho dato io le dimissioni”.
Per capire le ragioni e i risvolti della scelta apparentemente clamorosa compiuta dalla proprietà rizzoliana, Formiche.net si è rivolta al saggista economico Giancarlo Galli, editorialista di Avvenire e autore di inchieste e libri che hanno messo in luce trame, ambizioni, rivalità e faide del ceto dirigente italiano.
Come giudica il Corriere della Sera di Ferruccio de Bortoli?
De Bortoli è stato un eccellente timoniere della nave Corriere in mezzo a un’infinità di scogli. Il primo è quello interno-professionale scaturito dalla ristrutturazione di Rcs – tagli al personale e messa sul mercato della storica sede milanese – in una stagione di acuta crisi editoriale della carta stampata. L’altro è rappresentato dalle lotte intestine alla strana proprietà del giornale.
Perché “strana”?
Nell’azionariato del Corriere sono presenti tutti i potentati economici e bancari italiani. Realtà che rendevano arduo trovare notizie genuine sul reale andamento dell’economia. Se devo muovere una critica a de Bortoli, è quella di non aver saputo fotografare la crisi che ha coinvolto l’intera imprenditoria e gli istituti creditizi nel fallimento del “sistema Paese”. Mentre gli riconosco il merito di aver mantenuto una squadra di editorialisti come Michele Ainis, Francesco Giavazzi, Ernesto Galli della Loggia, capaci di analisi sferzanti sul potere.
Quanto hanno pesato nella fine del rapporto i soci principali di Rcs?
Ferruccio, entrato al Corriere mentre io ne uscivo, è persona estremamente sensibile come tutte le figure di una certa caratura. È uno spirito libero che si è trovato a essere sballottato negli scontri tra Fiat e banche. E nella lotta serrata tra l’ultra-ottantenne presidente del Consiglio di sorveglianza di Intesa San Paolo, Giovanni Bazoli, e il patron di Hogan e Tod’s, Diego Della Valle. Con il tempo ha visto sfilarsi dalla proprietà la famiglia Pesenti, e ha assistito al cambiamento di ruolo di Mediobanca. Non essendo un Don Chisciotte che lotta contro i mulini a vento, de Bortoli ha preferito lasciare. Non poteva resistere a lungo.
Vi sono stati azionisti intrusivi nelle vicende del giornale?
Non parlerei di ingerenze. Neanche per la Fiat, cui si attribuiscono progetti come la fusione tra Corriere e Stampa, e il passaggio di Mario Calabresi alla direzione del quotidiano di Via Solferino. Peraltro rilevo un paradosso.
Quale?
Il progressivo disimpegno degli industriali nostrani, sempre più orientati verso lidi stranieri. Penso ad Alitalia, a Fiat, alla marcata vocazione internazionale dell’Eni. Tali gruppi si sono accorti che al contrario del passato avere un giornale non serve a nulla. L’appoggio del Corriere ai governi Monti e Letta è stato poco influente. E per questo motivo ora il quotidiano di Via Solferino è più critico verso l’esecutivo di Matteo Renzi.
È sorpreso dal largo anticipo del preannuncio di dimissioni?
Trovo strana una “soluzione a termine” fino ad aprile 2015. La ritengo affine alla promessa di un Capo dello Stato che afferma “Quanto prima andrò via”. La crisi del Corriere rappresenta la cartina di tornasole della crisi della stampa italiana. Fenomeno che a sua volta richiama la crisi di una politica rivelatasi fragile al primo voto segreto nel percorso di riforme istituzionali. Un prisma intricato e a più facce che somiglia a Bisanzio.
La rilevanza del Corriere della Sera si fa sentire anche sugli equilibri politici locali, lei che vive a Milano?
No. La presa è sicuramente diminuita, come per tutta la carta stampata. Le cronache di Milano presenti nei giornali sono rappresentazioni di una città inesistente. Risultano prive di analisi critiche sulla mediocrità del ceto dirigente e politico territoriale, oltre che di autentiche inchieste. Semmai forniscono con tono moralistico notizie di indagini e arresti provenienti dalla Procura, come per la vicenda Expo. Il Corriere, in altre parole, non è più l’espressione della borghesia lombarda.