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Soluzione Cassa depositi e prestiti per Saipem?

La Cina è vicina, ma non deve far paura. A crederlo è Matteo Verda, ricercatore dell’Università di Pavia e dell’Ispi (e autore del libro “Una politica a tutto gas” e del blog Sicurezza energetica), che in una conversazione con Formiche.net spiega perché gli investimenti di Pechino in Italia – compresa la recente acquisizione del 35 per cento di Cdp Reti – sono i benvenuti, a patto che Roma sia in grado di risolvere alcuni limiti interni.

Come ha evidenziato sul suo blog, il governo cinese sta investendo massicciamente in Italia. Che significato dare a questi investimenti? Che obiettivi hanno? C’è una strategia pianificata?

Non credo ci sia una strategia marcatamente geopolitica. La Cina persegue una diversificazione del suo portafoglio e questi investimenti sono una risposta alla necessità di reinvestire la tanta liquidità di cui dispongono. Ricalcano il cambiamento dei rapporti di forza nel mercato globale. I mercati europei, nonostante la crisi, rappresentano ancora un “porto sicuro”, al riparo da squilibri valutari e dove i diritti di proprietà sono certi. Non vale solo per la Cina, ma anche per altri investitori come gli Emirati Arabi Uniti nel caso di Alitalia-Etihad.

Ha citato due Stati non democratici. Proprio questa tendenza mette in allarme alcuni osservatori, almeno in casi specifici come le reti di Snam e Terna. Secondo lei rappresenta un rischio?

Nel caso specifico di Snam e Terna parliamo di una quota di minoranza assolutamente irrilevante, che non influenza il controllo delle aziende. Sugli investimenti stranieri in generale, invece, il nodo a mio parere è un altro. O noi siamo fiduciosi di far rispettare le leggi italiane in Italia o avremo sempre paura degli investimenti, da qualunque parte provengano. Dobbiamo essere capaci noi di regolare il mercato, è questa la nostra sfida. I soldi americani valgono quanto quelli cinesi e una volta immessi nel mercato europeo sono soggetti alle nostre leggi. Dunque il problema non è il rapporto con la Cina, ma la propria capacità di autogoverno. L’esempio di Paesi come il Regno Unito, polo di attrazioni di investimenti da tutto il mondo, lo dimostra.

Tornando agli investimenti cinesi, in un’intervista a Formiche.net, il manager Alberto Forchielli ipotizza una strategia precisa di Pechino, volta ad accreditarsi nei confronti di Roma e dell’Europa. Che ne pensa?

Che il governo cinese investa anche per migliorare l’immagine del Paese in Italia è plausibile e spiegherebbe il sistematico sforamento della quota del 2%, tale da far scattare l’obbligo di segnalazione alla Consob e quindi la pubblicità all’evento. Secondo i dati riportati da organi d’informazione, nel primo semestre gli operatori cinesi hanno investito all’estero 32 miliardi di euro, in 2.766 imprese di 146 Paesi diversi. E l’Italia ha giocato un ruolo di primo piano, con un controvalore di circa il 20% del totale. Ma da un’operazione di marketing, oltre che di portafoglio, a una progressiva rottura del rapporto Italia-USA o a un affossamento del trattato di libero scambio transatlantico ce ne passa parecchio.

A proposito di asset strategici, tra le cessioni in vista più chiacchierate c’è quella di Saipem, controllata di Eni. Il professor Giulio Sapelli pensa che possa essere venduta, ma solo quando i tempi saranno maturi per farlo senza danneggiare il Cane a sei zampe. Come valutare un suo eventuale passaggio in mani straniere?

Saipem è un’azienda che opera in tutto il mondo e che pur essendone controllata da Eni, agisce in modo piuttosto autonomo. Eni è l’unica grande major che ha una propria società di ingegneria e costruzioni e se debba continuare ad averla in ottica strategica è una valutazione che spetta al suo management e ai suoi azionisti. Se invece guardiamo alla salvaguardia del nostro sistema industriale e il problema è quello di fare cassa, allora avrebbe più senso cedere una quota di Eni e tenere Saipem attraverso la Cassa Depositi e Prestiti. Le ricadute di Eni, ormai focalizzata sulle attività estrattive in giro per il mondo, non sono molte in Italia. E quelle poche che ci sono riguardano due settori come la raffinazione e la petrolchimica, che vanno a ridursi strutturalmente. Saipem invece ha in dote un bagaglio di competenze e tecnologie su cui forse avrebbe più senso immaginare una politica industriale.

Per rimanere in tema di sicurezza ed energia, le tensioni tra Ucraina e Russia continuano a tenere col fiato sospeso l’Europa. Se dovessero proseguire ci sarebbe il rischio che il Vecchio Continente – e dunque anche l’Italia – rimanga senza gas?

Gli stoccaggi ucraini si stanno svuotando anziché riempirsi e non è una buona notizia, perché la loro funzione è anche quella di tenere alti i livelli di flusso in inverno. La priorità è che si arrivi a un compromesso tra Kiev e Mosca, altrimenti sarà l’Europa a pagarne le conseguenze. Il rischio non è tanto quello di non avere gas sufficiente – anche se esiste una probabilità minima che ciò possa accadere a febbraio a fronte di un inverno rigido – ma piuttosto di ritrovarci con l’acqua alla gola davanti alle richieste esose del governo ucraino, visto che saremo costretti a ripianare i suoi debiti.


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