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Perché le critiche di D’Alema e Bersani a Renzi sono solo sfasciste. Parla Luciano Pellicani

Non è un fuoco di fila. Ma la convergenza di critiche pungenti rivolte al governo Renzi dai rappresentanti della minoranza del Partito democratico, dalle analisi dei grandi giornali e da figure di spicco del ceto economico è singolare. E tanto più stridente con il clima euforico ricco di attese messianiche che aveva accompagnato l’ascesa dell’ex primo cittadino di Firenze a Palazzo Chigi.

Passaggio che una storica direzione del Nazareno aveva approvato senza voti contrari. Comprese le aree facenti capo a Pier Luigi Bersani e Massimo D’Alema, tornati protagonisti con parole sferzanti nei confronti del premier. L’ex segretario ha auspicato “una netta separazione dei ruoli di Presidente del Consiglio e numero del Nazareno”. Il presidente della Fondazione ItalianiEuropei ha riproposto un tradizionale cavallo di battaglia spiegando che “il Pd non può essere il movimento politico-elettorale del premier e deve recuperare autonomia e identità”.

Per capire le ragioni e gli sbocchi dei fermenti di una parte rilevante della classe dirigente del primo partito italiano Formiche.net ha interpellato l’ex direttore della rivista socialista Mondoperaio Luciano Pellicani, politologo e sociologo dell’Università Luiss “Guido Carli”, studioso e divulgatore del socialismo liberale e federalista, protagonista della polemica contro l’ortodossia marxista e teorico del rinnovamento del Psi alla fine degli anni Settanta.

Cosa rivelano le critiche mosse a Renzi da Bersani e D’Alema?

Il premier ha sbaragliato e messo nell’angolo il vecchio apparato ex comunista. Sconfitto non tanto per aver perso le elezioni primarie, ma per non aver fornito le risposte ai problemi italiani in un arco di tempo lungo vent’anni. Che li ha visti artefici soltanto della demonizzazione di Silvio Berlusconi.

Ritiene fondato accusare il premier di “risultati insoddisfacenti”?

Al contrario di quanto hanno fatto finora destra e sinistra preparando il terreno propizio per la crescita del grillismo, Matteo Renzi sta aggredendo i nodi irrisolti della vita pubblica con un’agenda serrata. A partire da una riforma costituzionale capace di eliminare il “bicameralismo strabico” che rende ingovernabile il nostro paese. Rispetto alla quale l’attacco promosso da Stefano Rodotà e Gustavo Zagrebelsky contro “la deriva autoritaria di Renzi” è stato osceno. Ma vi è un punto ancor più importante.

Quale?

Il cambiamento del pianeta giustizia. Tema intoccabile perché associato ogni volta al sospetto di “cripto-berlusconismo”, che avvelenava la politica nazionale riproducendo lo schema da Guerra fredda dei “buoni contro i cattivi”, dei “puri contro gli impuri”. Con pragmatismo il Presidente del Consiglio ha posto l’obiettivo prioritario di una macchina giudiziaria funzionante per attrarre gli investitori stranieri. Per queste ragioni bisogna sperare in Renzi, dopo il quale non vi è altro che il buio.

La minoranza del Pd invoca la costruzione di un “partito plurale, con una leadership sostenuta da una dirigenza forte e diffusa”. 

Nella stagione della segreteria Bersani non mi pare che il Nazareno brillasse per pluralità delle culture e per rispetto dei differenti punti di vista soprattutto nel terreno economico-sociale.

È credibile una “vecchia guardia” che deve la sopravvivenza e il rilancio del Pd al rivale interno?

Lo è ben poco. Peraltro la staffetta a Palazzo Chigi tra Enrico Letta e Matteo Renzi fu approvata dal Nazareno quasi all’unanimità. E il nuovo premier, al contrario del predecessore, ha affrontato a viso aperto le questioni irrisolte, realizzando un grande risultato nel voto europeo e arginando l’offensiva Cinque Stelle in uno scenario economico complesso.

Vi è il rischio di un Partito democratico destabilizzato e destabilizzante nei confronti del proprio governo e verso se steso?

Sì. Una politica dello sfascio potrebbe prevalere e far perdere il raro patrimonio di consensi raccolti grazie al premier. Anziché muovere all’attacco di Renzi, gli oppositori interni dovrebbero dargli almeno due anni di tempo per metterlo alla prova.

Anche l’establishment economico italiano ha riservato al governo giudizi aspri.

È possibile che i poteri forti abbiano avanzato richieste precise cui Renzi ha risposto negativamente. Evidentemente si sentono minacciati da un giovanotto che sta sparigliando le carte. Speriamo che il premier tenga duro e non demorda.

Nutre fiducia nelle capacità riformatrici di Renzi?

L’ex sindaco di Firenze è un personaggio di cultura democratico-cristiana. E come Alcide De Gasperi sa che il punto di equilibrio per portare avanti le riforme in Italia è guardare a un centro orientato a sinistra. Egli non si limita a svolgere il lavoro di routine. Sta giocando un ruolo molto simile a quello esercitato da Bettino Craxi a cavallo tra anni Settanta e Ottanta. Un’iniziativa dinamica che scardinava equilibri di potere consolidati rompendo il compromesso storico e favorendo la modernizzazione del nostro paese. Al punto di proporre la Grande Riforma istituzionale, prima di dimenticarla una volta giunto al governo.


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