La disgregazione italiana pare fare improvvisi e impetuosi passi in avanti: l’attacco frontale all’Eni, la persecuzione del generale Mario Mori, l’improvvisa inchiesta su babbo Renzi e quelle altrettanto provvidenziali su Denis Verdini e su Donato Bruno, la “testimonianza” obbligata di Giorgio Napolitano, la volgarità dell’attacco di Ferruccio de Bortoli a Matteo Renzi (condita dalle scomposte dichiarazioni di Diego Della Valle), fino all’Anm che invece di farsi un’autocritica perché le sue prese di posizione sulle “ferie” sono apparse alla società italiana espressione di uno sfrenato corporativismo, se le prende con “la falsità” del presidente del Consiglio.
La durezza e la tempestività delle aggressioni (tutte mirate a destabilizzare lo Stato italiano), stupiscono. Di ciò Renzi ha senza dubbio la sua parte di responsabilità, anche se è ormai sempre più evidente quello che ha scritto Angelo Panebianco: l’unico che tiene ancora aperto un varco al cambiamento qui da noi è il “cazzaro” fiorentino. Il problema è affiancargli altri innovatori magari più razionali ma non sgombrare il solo che è ora in campo.
In realtà la vera colpa (ed è innanzi tutto di Napolitano) è di non essere andati a votare prima di fare il governo Renzi. La povera Grecia ha più qualità politica di noi perché il loro Mario Monti, Lucas Papademos, è durato tre mesi invece di sedici, perché Antonis Samaras quando non ha avuto una maggioranza nei suffragi invece di cercarsi qualche aspirante ministerialista, è tornato a votare tre mesi dopo le elezioni che non gli avevano dato un pieno mandato.
Il fatto è che le nostre tendenze disgregative vengono da lontano e nascono da una concezione chiusa dello Stato mai corretta neppure dalla pur sapiente e partecipata Prima Repubblica. E alle tendenze disgregative della società corrisponde un rapporto oligarchico e non liberale con lo Stato, di settori fondamentali dell’establishment (dai magistrati ai grandi giornali ai grandi banchieri) che in questo senso rispondono con diffidenza e talvolta con violenta opposizione ai tentativi di “aprire” lo Stato per il timore di perdere una centralità garantita non dal merito (che ti consente di conquistartene “un’altra”) ma dalla “posizione” (persa questa è perso tutto). C’è chi ha definito questa tendenza come “sovversivismo delle classi dirigenti”.
Non è male ricordare come fu il Corriere di Piero Ottone a flirtare con l’estremismo violento che assaltava la Bologna di Renato Zangheri, quando si temeva che un asse Andreotti-Moro-Berlinguer potesse allargare le basi dello Stato. Non va scordata la tenaglia De Mita-Scalfari per liquidare i tentativi di innovazione craxiani. E’ interessante notare come si trovino all’opposizione del Renzusconi i più tra quelli che fecero fallire il Dalemoni del 1998.
Naturalmente tali tendenze sono esasperate dall’egemonia bottegaia di Angela Merkel che solo tra due anni potrebbe regalarci la Gran Bretagna fuori dall’Europa, Marine Le Pen all’Eliseo e Alexis Tsipras all’Acropoli. Ma oggi nello scatenarsi della crisi italiana conta anche uno specifico fattore: l’ipotesi che Napolitano lasci il Quirinale a primavera. La nostra barocca Costituzione frutto della comprensibile paura per la Guerra civile europea che ancora nel 1947 divideva il nostro Paese, ha definito un sistema di potere in molti punti inefficace e in certe parti non liberale (a iniziare dall’assetto della magistratura che unificando giudici e accusa mutuava logiche corporative di tipo fascista o salazarista).
Il tutto per funzionare prevedeva un’anomala centralità dei partiti e aveva un figura di compensazione – con l’establishment statuale e con i sistemi delle influenze internazionali ben radicati – consistente in un capo dello Stato anch’esso espressione di un non pieno liberalesimo del nostro sistema politico. La scelta per il Quirinale ha sempre provocato grandi scosse anche quando nella Prima Repubblica l’egemonia Dc e la “non alternativa” Pci metteva sotto controllo le maggiori tensioni.
Le scosse sono diventate un terremoto dopo il 1992 quando il sistema non poteva più contare sulla surroga dei partiti. Così si usa l’omicidio di Giovanni Falcone per impedire la presidenza Andreotti, viene “sgombrato” Silvio Berlusconi per preparare la successione a Oscar Luigi Scalfaro, viene sabotato il governo Berlusconi nel 2004 in modo che nel 2006 il leader del centrodestra non possa essere determinante nella scelta per il Colle e persino Romano Prodi viene rimosso in fretta perché altrimenti con i suoi disastri avrebbe regalato a Berlusconi il Parlamento che eleggeva il presidente della Repubblica.
Oggi pare quasi di avvertire il lavorìo che sta riprendendo per non lasciare al cazzaro fiorentino mano libera sul Colle. E i voti contro i vati Catricalà o Violante sono i chiari segni del caos che si determinerà man mano che ci si avvicinerà alla data fatale.
Da qualsiasi parte la si guardi, quella attuale non pare una situazione governabile affidandosi al senso di responsabilità di un Parlamento allo sbando. Con qualsiasi metodo sia eletto, un nuovo Parlamento sarebbe più adatto di questo per fare una scelta che altrimenti potrebbe avere esiti sempre più disastrosi.