Una riforma tiepida, poco incisiva e lontana anni luce dalla rivoluzione annunciata da Matteo Renzi? O un’innovazione radicale in grado di sfidare i totem culturali e sindacali egemoni nel mondo progressista? Il testo approvato a grande maggioranza dalla Direzione nazionale del Partito democratico in materia di lavoro sta alimentando letture contrastanti e polemiche roventi.
Tutte focalizzate attorno alla legittimità del licenziamento compiuto dalle imprese per ragioni economiche e di ristrutturazione aziendale. Mentre restano sullo sfondo le riflessioni sul pilastro più rilevante del Job Act: la creazione di una rete di ammortizzatori sociali moderni orientati al Welfare to work.
Per capire i risvolti e la direzione di marcia di un confronto così delicato Formiche.net si è rivolta a Giorgio Benvenuto, storico leader della UIL, già segretario del Partito socialista italiano e parlamentare dell’Ulivo, animatore e presidente della Fondazione Bruno Buozzi.
Come giudica l’esito della Direzione nazionale del PD?
Sono rimasto deluso. Ero convinto che si sarebbe raggiunto l’accordo su un tema dalla forte portata ideologica come l’Articolo 18. La cui riforma richiede uno sforzo, come richiesto negli interventi di Franco Marini e Sergio Chiamparino. Rilevo tuttavia una novità significativa nella riunione.
Quale?
L’atteggiamento del premier nei confronti del rapporto con le forze sociali. La sua apertura è una svolta rilevante. Per mia esperienza ritengo che su materie così delicate si debba sempre partire con una valutazione e riflessione ampia. Allo scopo di evitare per esempio i gravi errori compiuti da Elsa Fornero nel cambiamento del regime previdenziale.
Il testo votato dal vertice del Nazareno va nella giusta direzione?
Riconosco che l’obiettivo perseguito dalla maggioranza del Partito democratico è realistico. Non possiamo restare ancorati all’Articolo 18 dello Statuto del 1970, che finirebbe per ignorare i lavoratori privi di diritti. L’adeguamento ai mutamenti intervenuti a livello mondiale non può avvenire però con una ricetta “prendere o lasciare”. Meglio percorrere la strada più lunga ed evitare di infilarci in un vicolo cieco.
Appare complicato risolvere lo stallo sull’Articolo 18.
La norma presenta un significato più ideologico che pratico. Cause e richieste giudiziarie di reintegro a seguito di licenziamento considerato illegittimo si sono fortemente ridotte. E spesso il lavoratore preferisce un risarcimento economico al rientro in azienda, a causa di rapporti ormai logorati. Concentrarsi su un punto del genere è un’esasperazione.
Perché?
Il vero problema attiene ai licenziamenti individuali. Non a quelli collettivi oggetto di trattative, contratti di solidarietà e pre-pensionamenti, risoluzione da parte dei governi. È necessario trovare una soluzione pragmatica per salvaguardare l’universalità di diritti essenziali. Al di fuori di rigidità. Guardiamo alle esperienze di altri paesi.
Come la Germania?
Lì l’imprenditore non vede nel lavoratore un nemico di classe, e il dipendente si sente coinvolto in modo responsabile nel buon andamento dell’azienda. Anziché promuovere la cultura e gli spazi di collaborazione reciproca, nel nostro paese si trascina una mentalità di antagonismo sindacale. Nostro dovere è pensare ai 5 milioni di giovani precari, il 75 per cento delle nuove assunzioni. Un errore economico tremendo, poiché produce un lavoro privo di qualità, precisione, estro.
È il centralismo contrattuale l’autentico ostacolo a un mercato del lavoro dinamico?
Reputo necessario attenuare un centralismo che presenta ragioni nobili ma provoca effetti nocivi in una fase di recessione. La negoziazione decentrata era peraltro l’obiettivo delle associazioni sindacali metalmeccaniche protagoniste dell’Autunno caldo del 1969. La loro iniziativa osteggiava la volontà delle organizzazioni confederali di stabilire regole uniformi per tutte le relazioni industriali. Rinunciare a una logica romano-centrica e attivare un potere di negoziazione locale e aziendale è la strada da percorrere.
La soluzione passa per il contratto unico con tutele crescenti nel tempo messo a punto dal giuslavorista Pietro Ichino e dagli economisti Tito Boeri e Pietro Garibaldi?
È una proposta meritevole di approfondimento, per avere ordine e certezza nelle regole di accesso. Ma presuppone un rapporto di fiducia profonda tra lavoratori e imprese.
È realizzabile in Italia una rete di ammortizzatori sociali moderni orientati al reinserimento occupazionale?
Condivido l’orientamento verso i modelli scandinavi di “flessibilità sicura”. Ma la Flexsecurity danese richiede notevoli risorse, e il nostro paese è penalizzato dal “tallone d’Achille” dei guai economici e finanziari che ci trasciniamo dal passato. L’Italia può procedere in tale direzione con gradualità, rinunciando a vivere di soluzioni alla giornata come la cassa integrazione in deroga.
Scorge lo spazio per un’unità riformatrice nel Pd?
Nel Partito democratico, ove prevalgono pulsioni partigiane, ho apprezzato interventi che si muovevano verso una mediazione di respiro sindacale. Che non si rassegna allo scontro frontale pur nelle transitorie esasperazioni tattiche.
Vede rischi di scissione?
No. Renzi non ha alternative. Ma deve rendersi conto che ricevere consenso per necessità è diverso dal riscuoterlo per convinzione.
Il linguaggio distensivo utilizzato dal premier apre una nuova concertazione o è una manovra per scongiurare lo sciopero generale minacciato dalla CGIL?
Il Presidente del Consiglio è abile nello sparigliare continuamente le carte. Le divisioni nelle organizzazioni sindacali possono offrirgli alibi. Pertanto le confederazioni devono compiere tutti gli sforzi per raggiungere una posizione unitaria. L’alternativa è lasciare al governo la bandiera dei giovani precari.