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Ecco i 4 muri ancora da abbattere in Italia

Oggi, anniversario della caduta del muro di Berlino, ci si aspetterebbe un intervento che racconti le differenze tra prima e dopo la caduta di quel muro. Tuttavia, ciascuno sa, per studio o per esperienza, che dietro quel muro si nascondeva la più anti umana, sanguinaria, ipocrita delle ideologie. È opportuno, pertanto, partire dall’oggi perché ogni lezione della storia è viva se applicata nel tempo presente.

Il mondo occidentale vive un momento difficile: il medio-oriente destabilizzato, i cristiani perseguitati, l’Occidente sotto attacco dei fondamentalisti, l’Europa sempre meno unita, le aggressioni e le violazioni della legalità internazionale alle porte del continente. E allora ricordare davvero la caduta del muro oggi significa tenere alta la guardia e contestare con coraggio certe prese di posizioni naif e facilone come quelle di chi vede un riferimento chi aggredisce un Paese sovrano alle porte dell’Europa, come quelle di chi viene a spiegarci che l’ultimo sanguinario regime comunista è espressione di una società bene ordinata quando invece oggi c’è solo da difendere i valori cristiani e liberali sulle due sponde dell’Atlantico e del Mediterraneo. Questo significa ricordare oggi il significato profondo di quel muro.

Non è facile prevedere se il politologo Francis Fukuyama avesse ragione nello scrivere un famosissimo libro intitolato “La fine della storia e l’ultimo uomo” che sosteneva la vittoria di lungo periodo della democrazia liberale nel mondo come metodo migliore per il governo degli uomini. Certo è che da quel giorno di venticinque anni fa il mondo non è più lo stesso: prodotti e mercati si sono globalizzati, la cooperazione internazionale e la tutela dei diritti sono state rinforzate, la povertà si è ridotta per centinaia di milioni di esseri umani, le tecnologie prima usate per le guerre oggi sono comodità a disposizione di governi e cittadini. Ci è stato consegnato un mondo interconnesso, veloce, mobile, plurale.

Un mondo che ha visto un Paese, l’Italia, annaspare tremendamente, chiudersi, arroccarsi nella paura e nei privilegi. Abbiamo subito la globalizzazione più di qualsiasi altro Stato occidentale e non per colpa degli altri, ma perché mentre un muro cadeva noi ne edificavamo altri fingendo di non capire il mondo presente. Sono quelli, i muri, che la generazione del 1989 dovrebbe abbattere con la massima determinazione. Quali?

Il primo muro è quello dello Stato: inefficiente, burocratico, sempre più indebitato, che fa troppe cose e troppo male. L’impressione è che, per riprendere l’espressione di due studiosi americani Daron Acemoglu e Tim Robinson, negli ultimi vent’anni le istituzioni italiane siano diventate estrattive: una classe politico-burocratica ha stritolato produzione, crescita e ricchezza spremendo le risorse private come un limone. Dobbiamo riconvertirle in istituzioni inclusive capaci di creare ricchezza, non di ridurla né ridistribuirla soltanto. Questo significa agire in tre direzioni: rivoltare lo Stato come un calzino, svuotare il potere di enti e burocrati, rimettere il potere nelle mani di cittadini, imprese e mercato.

Il secondo muro è quello dell’inferno fiscale italiano. Una pressione fiscale sulle imprese pari al 68%, tutte le tasse indirette aumentate negli ultimi anni, aggressione continua e perenne al risparmio che oggi viene chiamato con un altro nome: rendita, anche se di poche migliaia o centinaia di euro. Abbattere quel muro significa restaurare due valori: l’impresa, cuore pulsante del Paese e risparmio, pilastro fondante della famiglia. Bisogna poi tagliare i rami del fisco: semplificare le norme, porre fine all’inciviltà giuridica del processo tributario. Dietro questo muro c’è un’Italia ricca, di successo, capace di produrre benessere e lavoro. Non si vede, ma esiste. Rompiamolo.

Il terzo muro è quello della vetocrazia italiana, ovvero quella forma costituzionale che rende il Paese difficilissimo da riformare per i veti contrapposti degli interessi costituiti. E non basta cambiare una camera regalandola al Partito Democratico per farlo. Come dicono gli anglosassoni: institutions matter, le istituzioni contano e sono fondamentali per lo sviluppo di un Paese. Il mondo globale richiede velocità di reazione, semplicità, decisioni, strumenti di partecipazione. Allora bisogna tornare a battaglie dimenticate: difesa del bipolarismo, semipresidenzialismo, cambiare le Regioni stesse che così non hanno un senso se non quello di spendere denaro pubblico senza rendicontare ai cittadini, inserire un principio di semplificazione per cui tutto ciò che non è vietato espressamente è lecito e non come oggi dove è lecito solo ciò che legge e magistratura consentono.

Ultimo muro: il castello di Kafka dei partiti. Vedete oggi la politica è come andare su Amazon. Un cittadino apre il sito di Amazon, nuovo strumento e comodità del progresso, cerca un prodotto. Se non lo trova, ne sceglie un altro. Per l’elettore vale lo stesso principio: se un partito non si aggiorna, non fornisce strumenti di partecipazione, contenuti e idee chiare il cittadino ne sceglie un altro. Grazie alla velocità dell’informazione, la comunicazione, il dibattito continuo online l’elettore è sempre più esigente. E chi è la fuori non lo si riprende più se si continua a fare politica come nel XX secolo senza accorgersi che si è passati al XXI. Perché ogni diciottenne che oggi compie gli anni non li vede nemmeno i partiti che ignorano il tempo presente. E allora, chi non lo ha fatto, se vuole sopravvivere dovrà aggiornarsi: rete, democrazia interna, competizione tra classi dirigenti a tutti i livelli.

È un momento difficilissimo, la generazione dell’89 che si sente smarrita, a tratti umiliata, spesso rabbiosa. Tuttavia, in ogni crisi si nascondono opportunità. E questo mondo rapido, mobile e connesso ne offre più che ad ogni altro. Certo a quella generazione spetta il compito di mettere il Paese sui binari della corsa globale e di disegnare istituzioni adeguate al secolo che è già iniziato. Oggi siamo qui per ricordare, ma anche per trovare il coraggio di cambiare e che da quella generazione di Berlino un principio dal 1989 è stata recepito: il futuro si gioca all’attacco.


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