L’avvento della moneta unica? Lungi dal realizzare il sogno dell’unità politica europea ha accentuato il fossato tra aree ricche e paesi fragili del Vecchio Continente. Tradendo le sue promesse.
È l’analisi spietata e realistica compiuta da Paolo Savona, professore di Politica economica all’Università Luiss “Guido Carli” e presidente della Fondazione Ugo La Malfa, nel corso del convegno “Oltre l’euro”, promosso alla Sala del Refettorio della Camera dei deputati dal parlamentare europeo di Forza Italia Raffaele Fitto.
La metamorfosi delle priorità
Per capire le radici della morsa soffocante da cui l’Europa non riesce a liberarsi e che tarpa sul nascere ogni anelito verso la sua rinascita economico-sociale, lo studioso risale a una fase storica ben precisa del percorso di integrazione comunitaria.
Mentre nella stagione pionieristica della costruzione del mercato comune europeo la volontà politica degli Stati membri era focalizzata sulla valorizzazione competitiva di comparti strategici come il carbone e l’acciaio, l’energia atomica, l’industria tessile, chimica e siderurgica, nel periodo culminante nella firma del Trattato di Maastricht l’attenzione fu rivolta ai vincoli sempre più stringenti sulle scelte fiscali nazionali.
Così le finalità di sviluppo del reddito e del lavoro che avevano animato la prima fase lasciarono spazio al primato dei parametri finanziari. Contemporaneamente, rimarca l’economista, le istituzioni che avrebbero dovuto favorire l’unificazione politica – euro, disciplina di bilancio, regolazione della concorrenza – hanno fallito nei loro obiettivi.
La cura fallimentare dell’austerità
Il risultato è un dualismo crescente nei tassi di produttività, che tende ad acuire il divario tra i territori forti e deboli.
Grazie alla filosofia che ha ispirato i trattati europei successivi al 1992, “si è fatta strada l’idea che i dualismi non dovessero essere corretti dall’intervento pubblico bensì da una politica di austerità fiscale”.
Anziché approdare a una coerente unificazione politica federale, rimarca lo studioso, è stata consacrata una strategia che pone vincoli allo sviluppo e non crea opportunità: “Per utilizzare l’espressione coniata dal giurista Giuseppe Guarino, sono state costruite realtà bio-giuridiche fonte di deflazione e depressione”.
Gli effetti nocivi sulle istituzioni europee
Le prove di tale deriva sono eloquenti. Per statuto la Banca centrale europea può perseguire l’unico target della stabilità monetaria tramite il finanziamento alle banche. Al contrario della Federal Reserve Usa così come degli istituti creditizi nazionali di Regno Unito e Giappone, chiamati a conciliare inflazione e sviluppo anche intervenendo sul cambio valutario.
La Commissione Ue – evidenzia Savona – ha poi allargato e rafforzato la vigilanza sulle scelte fiscali dei paesi membri acquisendo un potere sanzionatorio per gli Stati che violano le regole del Fiscal Compact. Ruolo che il Parlamento europeo non è in grado di intaccare.
Il tradimento di Maastricht
Per mutare rotta e conservare la conquista del mercato unico, l’ex ministro dell’industria invoca la trasformazione della Bce sul modello delle altre banche centrali e il “rispetto dei trattati di pace e benessere”. Richiamo che non rappresenta un’evocazione suggestiva di principi retorici. Ma il cuore di un ragionamento giuridico e la base di un’iniziativa politica dirompente.
Il Trattato di Maastricht prevedeva all’articolo 104 un rapporto del 3 per cento tra deficit e Prodotto interno lordo. La norma, frutto dell’azione dell’allora capo del Tesoro italiano Guido Carli forte del consenso della delegazione britannica, individuava la misura non come vincolo assoluto bensì come linea di tendenza cui si poteva derogare in presenza di fattori esterni persistenti: shock economico-finanziari, prolungata stagnazione produttiva, crisi di fiducia su larga scala.
Il fondamento giuridico dell’integrazione monetaria venne però vanificato con l’adozione dell’euro negli anni 1999-2002. Al suo posto entrò in vigore una regola formalmente subordinata ai trattati europei: il Regolamento comunitario 1466 messo a punto dall’ex responsabile delle Finanze di Berlino Theo Waigel, approvato dalla Commissione Ue guidata da Jacques Santer e dal titolare del Mercato interno Mario Monti con la piena condivisione del capo del Tesoro italiano Carlo Azeglio Ciampi nonostante i moniti avanzati dal suo amico e premio Nobel per l’Economia Franco Modigliani. Testo, poi trasfuso nel Fiscal Compact, che prefigurava una moneta fondata sul primato immutabile del rigore di bilancio a breve termine, su un vincolo imposto a realtà non omogenee dal punto di vista economico-sociale, sulla stabilità elevata a dogma.
Un ruolo attivo della Ue per le infrastrutture e l’industria
Accanto al “ritorno rivoluzionario allo spirito del Trattato di Maastricht”, l’economista prospetta due provvedimenti incisivi di politica europea.
Mantenendo il principio del pareggio dei bilanci pubblici nazionali, propone come contropartita la gestione da parte di Parlamento e Commissione Ue del 3 per cento dei disavanzi al fine di colmare le lacune infrastrutturali, compensare i divari nell’Euro-zona, stimolare la domanda aggregata e l’occupazione.
Altra misura essenziale è “proteggere la produzione continentale dalla concorrenza sleale di realtà emergenti soprattutto asiatiche fondata sul dumping economico e sociale”.
La carta estrema della fuoriuscita dall’euro
Ma la cornice fondamentale per rendere efficaci le strategie innovative fin qui formulate resta ai suoi occhi il voto popolare preventivo su tutte le decisioni di riforma delle istituzioni europee trasmesse ai parlamenti nazionali.
Requisito che apre scenari inediti. Cosa accadrebbe se le proposte di modifica non fossero accettate?
La risposta fornita da Savona non lascia spazio a equivoci: “Se vogliamo restare fedeli ai principi scolpiti nella Costituzione repubblicana dobbiamo riprenderci la sovranità monetaria, fiscale e normativa. Preparandoci adeguatamente a fronteggiare lo shock dell’abbandono dell’euro”.