Come in tutto il mondo i sistemi politici funzionano se consentono di far interloquire e integrare le aree radicali e moderate delle due polarità politiche essenziali: quella conservatrice e quella democratica.
I repubblicani hanno conquistato un risultato storico nelle elezioni di mid-term perché sono riusciti a combinare tea party e centristi come non era riuscito a John McCain e Mitt Romney. Nicolas Sarkozy aveva conquistato la Francia facendo proprie alcune istanze del Front national e poi aveva perso con François Hollande perché per il secondo mandato questa operazione non era andata in porto. Tony Blair e Gerard Schroeder avevano conquistato il “centro” ma si erano guardati bene dallo svillaneggiare il sindacato, isolandone invece le posizioni interne più conservatrici.
Il catastrofico dato della partecipazione elettorale in Emilia (la regione dove i cittadini educati dal Pci, dal Psi, dal Pri e dalla Dc – nonché dal Msi – consideravano un dovere morale votare) dimostra che lavorare per separare radicali e moderati delle due polarità (quando non ci sono fattori internazionali epocali come per l’Italia nella Guerra fredda o il Giappone dopo Hiroshima che tengono in piedi democrazie senza alternanza) non rovina tanto i partiti (che magari vincono 2 a 0) ma le nazioni.
Questa deriva italiana nasce dall’auto-commissariamento organizzato da Carlo Azeglio Ciampi alla fine degli anni ’90 e completato da Giorgio Napolitano negli ultimi anni con i governi esterodiretti di Mario Monti ed Enrico Letta. Matteo Renzi ha tentato qualche reazione a questo andazzo (dal Senato all’Italicum all’articolo 18) ma procede con una terribile palla di piombo al piede costituita dal fatto di non avere un vero mandato elettorale per la sua maggioranza e dalla sua idea di una rivoluzione puramente passiva, organizzata dall’alto senza vera partecipazione né dei partiti né dei corpi intermedi. Tutta questa linea si completa poi con l’idea di un Partito unico della nazione che stia in piedi perché il fattore P (populismo) esclude leghisti e grillino dall’area di governo.
Ma altro che partito della nazione! Così al massimo si prepara il partito del nostro pieno commissariamento (per esempio con l’arrivo di un Mario Draghi al Quirinale) che americani e tedeschi – terrorizzati dall’esplosione di un’economia come quella italiana (naturalmente dopo il lungo lavorìo da loro stessi sostenuto per degradare la democrazia italiana) – potrebbero alla fine appoggiare magari con le solite raffiche di aumenti dello spread.
C’è spazio per un esito diverso? Non lo so proprio, perché la portata della disgregazione italiana ha dimensioni impressionanti. Certo, se c’è uno spazio questo non può non vedere Matteo Salvini come uno dei protagonisti politici: il problema non è che lui sia o meno il leader di questo nuovo centrodestra, ma che senza di lui o ancor peggio contro di lui non c’è via di uscita. E non solo per una parte politica ma per l’Italia.
I leghisti pongono istanze politico-sociali (alcune tra le quali personalmente non condivido) che esprimono spesso immediatamente una base popolare sempre più ampia. E’ una funzione preziosa ma che non risolve il cuore della questione: la crisi italiana è particolarmente dal 1992 una crisi dello Stato e della sua Costituzione.
Il centrodestra (sia leghista sia berlusconiano) ha risposto a questa crisi identificandosi con gli strati sociali di riferimento piuttosto che elaborarne i bisogni culturalmente. Tutto ciò ha retto fino a che la crisi “globale” dal 2008 al 2011 non ha modificato il quadro internazionale che consentiva questa politica “dimezzata”.
Oggi non è più possibile andare avanti solo basandosi essenzialmente sulla pura rappresentazione. Ma la risposta non è neanche l’autoreferenzialità delle nomenklature proposta da certi esponenti del centrodestra né naturalmente il governo puramente dall’alto organizzato da Napolitano e con più coraggio da Renzi.
Serve una cultura politica che sostenga innanzi tutto uno sforzo costituente. Per riprendere la domanda del direttore di Formiche.net, Michele Arnese, se Salvini potrebbe essere il leader del centrodestra, questo sarà possibile se il leghista si porrà anche questo sforzo di elaborazione culturale (come per esempio ha fatto Marine Le Pen che ha conquistato così segmenti di elettorato tradizionalmente di sinistra tra gli insegnanti) accompagnato da un impegno costituente (e non solo nazionale: ci vogliono idee anche sulla governance infranazionale e globale) da non lasciare al pur encomiabile Roberto Calderoli.