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Islam, perché siamo in guerra ma forse non lo sappiamo

paolo becchi

A partire dalla caduta del muro di Berlino, per troppo tempo si sono sprecate le analisi trionfalistiche sul nuovo ordine globale che sarebbe nato dalle ceneri di quella che era stata chiamata la “guerra fredda”. C’è chi, come Francis Fukuyama, parlò persino di “fine della storia”, convinto che ormai il liberalismo politico ed economico avesse definitivamente trionfato e che l’Islam sarebbe inevitabilmente decaduto e ricompreso all’interno di un mondo occidentale rimasto orfano del nemico.

Nessuno aveva previsto quello che invece sta oggi sotto gli occhi di tutti. Non c’è nessun nuovo ordine globale e nessuna pace sulla terra. Esistono, al contrario, focolai di guerra disseminati un po’ su tutto il pianeta. Per cercare di spiegare l’attuale situazione dobbiamo fare un passo indietro.

L’epoca moderna è stata definita come l’epoca della statualità, della costruzione di un ordine internazionale fondato sulle libere relazioni tra Stati che si riconoscevano reciprocamente come sovrani. Questo ordine è stato il risultato della fine delle guerre di religione che, nel corso del XVI secolo, avevano spezzato l’unità del cristianesimo e segnato così la fine dell’universalismo della res publica christiana medievale. Si trattò, allora, di un conflitto religioso intercristiano, che poté essere superato con l’affermazione del principio di sovranità interna ed esterna dello Stato, la separazione tra fede privata e religione pubblica ed il riconoscimento della comune radice cristiana di tutte le religioni europee (il principio hobbesiano Gesù è il Cristo, su cui tanto protestanti che cattolici non potevano che convenire), il cui corollario sarà il criterio cuius regio eius religio definito con la pace di Westfalia.

Se lo Stato moderno nasce dunque da un processo di secolarizzazione, non si deve dimenticare come tale processo abbia potuto compiersi solo attraverso il riconoscimento e la definizione di una comune tradizione religiosa. Novalis coglierà bene il punto quando, sul finire del Settecento, scriverà Christenheit Oder Europa, per indicare che gli Stati nazionali dovevano formarsi ma che il  cristianesimo sarebbe dovuto rimanere il valore spirituale unificante.

C’è un altro punto, essenziale. L’ordine internazionale moderno riuscì a neutralizzare le guerre di religione non dichiarando, utopicamente, l’illegittimità di ogni guerra, bensì attraverso una limitazione e circoscrizione della guerra al solo conflitto tra Stati. Come scrive Schmitt, il criterio della “guerra giusta” sarà allora sostituita «dal criterio dello justus hostis, definendo legittima ogni guerra interstatale condotta tra sovrani dotati di eguali diritti. Mediante questa formalizzazione  giuridica si rese possibile una razionalizzazione e una sostanziale umanizzazione, cioè una limita-zione effettiva della guerra, che sarebbe durata per più di due secoli».

Il primo principio di questa limitazione era la non criminalizzazione dell’avversario. Per citare ancora Schmitt, diremo che «in confronto alla brutalità delle guerre di religione e di fazione, le quali sono per propria natura guerre di annientamento in cui i nemici si affrontano l’uno con l’altro come criminali e pirati», nella guerra europea moderna si distingue sempre il nemico dal criminale: «Il concetto di nemico può ora assumere una forma giuridica. Il nemico cessa di costituire qualcosa “che deve essere annientato”. Aliud est hostis, aliud rebellis. Diventa così possibile anche stipulare un trattato di pace con il vinto».

Oggi tutto è cambiato. La crisi della statualità ha fatto sì che la guerra non sia più una guerra tra Stati da effettuarsi nel rispetto di regole. La guerra attuale è sempre per sua natura irregolare: non più guerra tra Stati ma una guerra civile planetaria che si sposta nei luoghi dove può più facilmente attecchire. Iraq, Afghanistan, Libia, guerre per la spartizione di risorse, guerre per il controllo di insediamenti petroliferi. E, ora, il “califfato”, lo Stato islamico. Con esso, siamo di fronte ad un fenomeno apparentemente vecchio ma in realtà nuovo: la guerra mossa da impulso religioso.

La spiegazione terroristica non spiega niente. Il tentativo di farne il nemico assoluto ci si può facilmente rivoltare contro. Bisogna piuttosto riflettere su una cosa. All’Islam è mancato quel processo di secolarizzazione del cristianesimo che ha prodotto la nascita della Stati. Così, mentre il cristianesimo poteva diventare marxianamente l’oppio dei popoli, per l’Islam la religione è rimasta la dinamite dei popoli musulmani. E questa differenza è essenziale: non siamo di fronte allo scontro tra Stati sovrani, da una parte, e “terroristi” dall’altra, come sostengono politici e media occidentali. Questo è un punto di vista eurocentrico e superato (poiché non solo non esistono più gli Stati sovrani nel senso “classico” del termine, ma neppure la guerra regolare a partire dalla quale è possibile individuare il “terrorismo”). Siamo, piuttosto, di fronte alla nuova definizione di una serie di guerre di religione, di cui avevamo perso il ricordo, convinti che il nostro modello di diritto internazionale formatosi nel XVI secolo sarebbe durato in eterno e si sarebbe trasformato facilmente in ordine mondiale. Forse la storia ci sta impartendo una nuova e vecchia lezione? Forse un nuovo ordine internazionale non può che nascere, ogni volta, dalle guerre di religione? Hegel avrebbe detto: Hier ist die Rose, hier tanze.



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