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Mattarella, Sergio e il legame con Piersanti

Nella biografia del nuovo capo dello Stato Sergio Mattarella la traccia più profonda è costituita dal legame con il fratello Piersanti, ucciso da Cosa nostra nel gennaio 1980 mentre ricopriva il ruolo di presidente della Regione Sicilia.

Artefice di una stagione di rinnovamento della Democrazia cristiana e di moralizzazione della macchina amministrativa dalla penetrazione malavitosa, cui il giornalista di Avvenire Giovanni Grasso ha dedicato il libro “Piersanti Mattarella. Da solo contro la mafia” (Edizioni San Paolo).

Frutto di un lavoro su carte e documenti durato quattro anni, il volume è stato pubblicato nel febbraio 2014. Formiche.net ha approfondito con l’autore la pagina fondamentale della formazione politico-familiare del candidato al Colle.

Quale fu il legame tra i due fratelli Mattarella nella lotta alle collusioni mafiose nella Sicilia degli anni Settanta?

Sergio ha preso in mano la bandiera insanguinata di Piersanti, grazie alle ripetute esortazioni di Ciriaco De Mita e fra mille tentennamenti. Ma aveva previsto una carriera di professore universitario a Palermo. Anche nel carattere i due fratelli sono sempre stati molto diversi. L’allora presidente della Regione Sicilia era estroverso, mentre il candidato al Colle è timido e riservato. Tuttavia essi erano uniti e complementari.

Quanto ha inciso l’eredità politica del padre Bernardo?

Moltissimo. La loro era una famiglia di tradizione cattolico-popolare prima che democratico-cristiana. A casa ebbero l’opportunità di frequentare figure del calibro di Giorgio La Pira, Alcide De Gasperi, Aldo Moro, Giovanni Battista Montini futuro Pontefice Paolo VI. L’eredità di Bernardo l’aveva presa Piersanti. Sergio non partecipava agli incontri di partito, bensì alle riunioni di un gruppo chiamato “Politica”.

Di cosa si trattava?

Piersanti aveva denunciato e intrapreso una campagna rigorosa contro una Democrazia cristiana siciliana in mano ai signori delle tessere e delle clientele. Ai suoi occhi l’unico modo per rinnovarla passava per la creazione di una scuola di politica. Nella quale chiamò personalità come Leopoldo Elia, Pietro Scoppola, Piero Barucci, Gabriele De Rosa. Tra loro vi era poi un giovane Leoluca Orlando.

Il primo cittadino della “Primavera di Palermo”?

Sì. Alla guida della Regione Sicilia Piersanti Mattarella non aveva portato avanti “una retorica politica dell’anti-mafia”. Aveva promosso leggi per riformare i meccanismi dell’amministrazione pubblica nel senso dell’efficienza e della trasparenza. Puntando a sbloccare i ritardi e a eliminare le opacità dell’apparato burocratico che aprivano spazi di fioritura per la criminalità mafiosa. Il fratello volle proseguire tale opera, in una sorta di “passaggio di sangue” fra i due. E con questo spirito lavorò all’esperimento della giunta Orlando. Una vicenda “pazzesca” per l’epoca.

Pazzesca?

L’amministrazione comunale guidata da Orlando era “anomala”. Teneva all’opposizione mezza Dc, la parte moderata-conservatrice storicamente egemone. E coinvolgeva il Partito comunista italiano oltre ai Verdi. Fu un laboratorio formidabile di rinnovamento, molto osteggiato dalla Democrazia cristiana nazionale.

Per quale motivo?

Erano gli anni del passaggio della segretaria da De Mita a Arnaldo Forlani, che subiva le pressioni di Bettino Craxi per rendere omogenee le giunte locali all’alleanza di governo nazionale. La successiva stagione di Mani Pulite avrebbe sancito l’eclissi definitiva della “Primavera di Palermo” e la rottura politica tra Mattarella e Orlando, che aveva scelto di abbandonare la Dc per costituire la Rete. Una lacerazione che si riverberò anche nel rapporto fra i due protagonisti intellettuali e teorici spirituali di quell’esperienza: i gesuiti Bartolomeo Sorge e Ennio Pintacuda.

Torniamo a un tema centrale del libro. È stata fatta piena luce sull’assassinio di Piersanti Mattarella?

No. La cupola mafiosa è stata individuata come mandante dell’omicidio. Ma sugli esecutori è rimasto il mistero. Nel 1989 Giovanni Falcone aveva spiccato un mandato di cattura nei confronti dei terroristi neri Valerio Fioravanti e Gilberto Cavallini, successivamente prosciolti dall’accusa. Ricordo poi molti tentativi di depistaggio, tra cui la frese attribuita all’ex sindaco mafioso di Palermo Vito Ciancimino: “L’assassinio Mattarella è stato opera di un terrorista di sinistra venuto dal Nord”. Forse è l’unico delitto di mafia i cui tasselli non sono stati messi a posto. Sa cosa mi brucia di più?

Cosa?

L’omicidio Mattarella è stato il crimine politico più grave nella storia repubblicana dopo l’uccisione di Aldo Moro e Vittorio Bachelet. Ed è rimasto dimenticato per troppo tempo. Ma nel mio ricordo di giovane cattolico attivo nella politica resta indelebile. Pensi che nell’arco esatto di tre mesi all’inizio del 1980 furono assassinati tre grandi uomini di fede cristiana: Mattarella a gennaio, Bachelet a febbraio, monsignor Oscar Romero a marzo.



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