Sugli anni Novanta pesa una maledizione. Anzi due. Intanto sono ancora troppo vicini per poterli leggere con il giusto distacco. Poi sono l’ultima propaggine dell’era pre Internet e praticamente tutto quello che ne sappiamo passa da media e realtà politiche che per varie ragioni non hanno grande interesse a rappresentare qualcosa che non sia Tangentopoli, Mani Pulite e le stragi.
La serie Sky 1992 non fa eccezione (e non si vede perché dovrebbe farla) perché propone ai contemporanei la versione mainstream, quella delle manette, di un sistema corrotto contrastato da magistrati senza macchia. Fa più notizie uno scenario apocalittico fatto di potere corrotto – seducente come i coatti di Romanzo Criminale e quelli del Gomorra televisivo – e da un manipolo di eroi che lo combattono, rispetto a una realtà politica complessa. Ma sfugge la vera natura degli anni Novanta. Non furono solo gli anni delle manette e della scoperta della corruzione. Furono in primo luogo gli anni delle riforme e del rifiuto della criminalità organizzata, di una voglia di cambiamento e di normalità che gli italiani espressero chiaramente, ma che fu tradita.
Iniziano idealmente nel 1989, con il crollo delle ideologie cioè con il muro di Berlino che viene giù; poi imboccano un percorso che aveva accomunato l’Italia proprio ai paesi ex comunisti. La consapevolezza che tutto doveva cambiare, che i partiti avrebbero dovuto fare non uno, ma cento passi indietro. E che lo stesso avrebbe dovuto tutte le filiazioni di una politica che era nata come risposta a un mondo totalmente diverso. Dieci partiti sono troppi, ne bastano due senza ideologie. Mille parlamentari sono troppi, ne basta meno della metà. Il governo deve potere governare, ma deve essere responsabile. Presidenzialismo o premiership parlamentare forte, come nel Regno unito? Il dibattito negli anni Novanta si muoveva su questi binari. E il consenso sulla direzione che avrebbe dovuto prendere l’Italia era praticamente totale. Fare come le democrazie occidentali che funzionano meglio, che sono meno corrotte, meno ideologizzate e corporative. C’era solo da scegliere la ricetta.
Le inchieste e le manette nelle prime pagine dei giornali che comparvero dopo, non aiutarono questo percorso. Prima lo affiancarono. Gli stessi che si entusiasmavano per le riforme restarono sedotti dall’immagine di una giustizia che finalmente colpiva anche i potenti. Ma poi lo interrompono bruscamente. L’attenzione dei lettori si spostò dalle forme di Stato e di governo che il Paese avrebbe potuto assumere, alle cronache molto miopi dell’arrestato del giorno. Se prima gli italiani leggevano le analisi politiche di Sartori e riconoscevano un ruolo politico a Mario Segni – moderatissimo nei modi, per nulla carismatico, ma fermo nel volere un sistema maggioritario e bipolare – poi si concentrano sul pool di Mani Pulite e si fecero coinvolgere totalmente dalle storie di degrado sublime che emergevano dai verbali. Anche in questo caso, disgustose e seducenti.
Nelle rivoluzioni prima si distrugge e poi si costruisce. In Italia si fece il contrario. Prima si cercò una nuova architettura per lo Stato, poi si cominciò a demolire il vecchio sistema. Che in realtà stava venendo giù da solo, per via politica e non giudiziaria. Basta guardare la cronologia di quegli anni per capirlo.
Il voto referendario che diede il primo colpo al sistema dei partiti, non fu quello del 1993, ma quello del 1991. Referendum sulla preferenza unica alla Camera dei deputati. Un tecnicismo anti voto di scambio che assunse un significato più ampio. Un messaggio ai vecchi partiti affinché si facessero da parte: votò il 62,2% e vinse il sì con il 95,6%. Il clima era già questo, prima delle manette e dei cappi da forca esibiti in Parlamento. I partiti erano praticamente tutti contro quel primo quesito. Chi in modo esplicito, il Psi e la Dc, chi in modo velato, come Botteghe oscure. Nello stesso anno si sciolse il Pci e nacque il Pds, primo partito della sinistra post comunista. Nel febbraio del 1992 l’arresto di Mario Chiesa, appena due mesi dopo la nuova raffica di referendum per iniziativa del Partito radicale e di Segni. Quelli per il maggioritario, ma anche quelli propriamente radicali come l’abrogazione dei controlli ambientali da parte delle Usl, delle norme sulle nomine nelle banche pubbliche, del finanziamento pubblico ai partiti, del ministero delle Partecipazioni statali, dell’Agricoltura e del Turismo. Passarono tutti con una percentuale di votanti intorno al 77% e i Sì tra il 70 e l’80 per cento. Non per Mani pulite né per l’appoggio dei partiti che questa volta divenne esplicito, ma per gli stessi motivi del 1991. La voglia degli italiani di andare oltre la vecchia Italia.
Lo spirito del primo biennio degli anni Novanta venne spazzato via da Tangentopoli. Mentre i politici finivano in manette, i referendum venivano dimenticati. La politica tornò a presidiare le istituzioni, anche se aveva perso il ruolo di guardiano dell’emergenza da Guerra Fredda. Ancora oggi, come nel 1989-1991, si cerca di capire se e come cambiare lo Stato e la politica. Proprio vero che le vere rivoluzioni sono noiose e silenziose. Non meritano una fiction.