L’approvazione unanime della versione definitiva di legge elettorale da parte della Direzione nazionale del Partito democratico sembra aver consacrato la vittoria di Matteo Renzi sulla minoranza interna.
Una sfida ricca di interrogativi
Ma è adesso che inizia la partita più delicata per il premier. Perché, in vista dell’approdo del testo a Montecitorio, i rappresentanti della sinistra del Nazareno puntano sui rapporti di forza in Commissione Affari costituzionali e sulle richieste di voto segreto previste dal Regolamento della Camera.
Scenario che l’ex primo cittadino di Firenze vuole affrontare ricorrendo a ogni strumento legale. Giungendo all’extrema ratio dell’apposizione della questione di fiducia, che rappresenterebbe uno strappo politico-legislativo rilevante. E puntando, forse, secondo alcuni osservatori, sul ritorno alle urne con le nuove regole nel più breve arco di tempo.
L’offensiva della sinistra Pd
Gli avversari interni del Presidente del Consiglio hanno subito una sconfitta eloquente nel vertice del 30 marzo. Tuttavia rifiutano l’idea di essere stati messi nell’angolo e stanno preparando una risposta agguerrita per modificare i punti distintivi del meccanismo di voto.
Le riflessioni svolte da Pier Luigi Bersani nella recente intervista al Corriere della Sera tratteggiano i contorni di un conflitto difficilmente componibile.
L’ex segretario accusa apertamente Renzi di volere l’abolizione della rappresentanza: “Lo fa con un sistema che non esiste da nessun’altra parte al mondo. Lì si rispetta il voto popolare e si cerca di comporre le forze e i programmi per rappresentare società complesse. Qui da noi no”.
Una contrapposizione profonda
L’escalation dei toni, la teatralità dello scontro e i reiterati ultimatum possono apparire eccessivi rispetto ai tecnicismi spesso poco decifrabili della legge elettorale.
Tanta passione e virulenza trovano ragioni profonde, legate a visioni contrapposte di partito e di governo. Filosofie che emergono con limpidezza nelle polemiche relative ai tratti qualificanti del Renzellum.
Le ragioni del premio al singolo partito
Fulcro della riforma elettorale è l’attribuzione del premio di governabilità di 340 seggi parlamentari alla singola lista anziché all’alleanza vincente.
L’aspirazione coltivata dal premier è una competizione tra formazioni politiche e non più fra coalizioni di partiti. Un unico gruppo, al primo turno o al ballottaggio, conquisterebbe il bonus di maggioranza e acquisirebbe la forza autonoma di guidare il paese. Verrebbero a crearsi per la prima volta nella storia repubblicana esecutivi mono-partitici fortemente caratterizzati dall’impronta del primo ministro.
Un salto di qualità netto a fronte delle formule di governi frutto di laboriosi e logoranti accordi tra realtà differenti. L’Italia, attraverso l’assegnazione di una quota aggiuntiva di rappresentanti alla lista vincente, conoscerebbe un’esperienza che costituisce la prassi in Gran Bretagna e Spagna. E Renzi riuscirebbe a realizzare la “vocazione maggioritaria” del Pd vagheggiata da Walter Veltroni.
“Meglio i governi di coalizione”
Fortemente ancorati al valore e alla ricchezza degli esecutivi di coalizione restano gli esponenti della minoranza Pd. Ai loro occhi la formula che ha caratterizzato la storia politica della prima e della seconda Repubblica, comprese le vicende dell’Ulivo e dell’Unione guidati da Romano Prodi, non rappresenta un modello di fragilità che finiva per trarre in inganno e calpestare le attese degli elettori.
Ma, come ricordato da Rosy Bindi nell’Assemblea delle sinistre del Partito democratico, costituisce un riferimento irrinunciabile di pluralismo, ascolto e mediazione in grado di riprodurre l’articolazione di culture e filoni attivi nella società. Per loro la missione del Partito democratico risiede nella ricerca di punti di intesa e sintesi con formazioni affini centriste e progressiste.
Visioni differenti del ballottaggio
Ragioni analoghe ispirano i giudizi contrapposti sul ballottaggio prefigurato dalla riforma. Una sfida che viene giocata a livello nazionale esclusivamente dalle forze politiche arrivate in testa nel primo turno.
Renzi vuole raggiungere l’obiettivo di un governo monocolore omogeneo grazie a una competizione bipartitica che conferisce al vincitore un’investitura popolare molto significativa.
La minoranza del Nazareno punta a temperare una legittimazione così forte del primo ministro proponendo la facoltà di apparentamenti con formazioni sconfitte nella tornata iniziale. E prefigurando lo scenario di esecutivi compositi come accade nelle città più grandi, un tempo modello per l’ex sindaco di Firenze.
E se al ballottaggio vincessero Grillo o Salvini?
È per tale ragione che Bersani ritiene “un vero pericolo” il ballottaggio messo a punto dal premier: “Lungi dall’assomigliare al maggioritario di collegio a doppio turno di tipo francese, esso serve a incoronare un leader e a creare una democrazia plebiscitaria. Con una formazione del 27 per cento che prende tutto il potere in un Parlamento di nominati al servizio del capo”.
Tuttavia l’ostilità della sinistra interna riflette un ulteriore timore. Il rischio, spiega l’ex ministro al Corriere, è che l’antagonista del Pd nella sfida cruciale per il governo diventi Beppe Grillo o Matteo Salvini. Considerato il panorama economico-sociale tutt’altro che florido, è il suo ragionamento, Renzi potrebbe non avere partita facile: “Anzi, la fluidità dell’opinione pubblica italiana rischia di compattare le molteplici espressioni di populismo e favorire il trionfo del Movimento Cinque Stelle come avvenuto a Parma”.
Uno scenario ricco di ombre per Renzi. Ma che è stato prefigurato di recente da autorevoli analisti come Luca Ricolfi, Gianfranco Pasquino, Giovanni Orsina.
Preferenze e capilista bloccati
L’altro tema caldo al centro dello scontro nel Nazareno concerne il numero dei parlamentari eletti con le preferenze. Renzi e il gruppo dirigente ripetono che il 70 per cento dei rappresentanti della formazione vincente sarà scelto liberamente dai cittadini. Ricordando che i seggi spettanti al primo gruppo sono 340 e che i capilista bloccati nei 100 collegi plurinominali ammontano a 100, restano 270 deputati chiamati a ricercare il consenso nel territorio.
Il problema, replicano gli avversari interni, riguarda le forze sconfitte. La saldatura tra attribuzione di un rilevante premio di governabilità e soglia di sbarramento per il Parlamento ridotta al 3 per cento dei voti, ha scritto sul Corriere della Sera lo scienziato politico Angelo Panebianco, “produce un panorama frastagliato delle minoranze, una galassia di forze marginali rispetto all’esecutivo”.
Un quadro nel quale nessun gruppo di opposizione riuscirebbe a conquistare più di 100 seggi. Ma così, rimarcano i rappresentanti della sinistra Pd, i parlamentari dei partiti perdenti sarebbero nominati dai rispettivi vertici.
“Gli eletti con le preferenze saranno molti”
A un’obiezione simile era improntata la proposta di emendamento formulata dai senatori democratici Federico Fornaro e Miguel Gotor per far eleggere il 70 per cento di tutti i parlamentari tramite le preferenze e il 30 attraverso candidature bloccate.
Il progetto è stato respinto a Palazzo Madama con i voti della maggioranza del Nazareno.
Compatta attorno alla replica del premier: “È facilmente immaginabile che la possibilità di candidature multiple prevista nella legge venga utilizzata largamente dai gruppi medio-piccoli. Interessati a raccogliere consensi presentando in molti territori il proprio leader. Che dovrà optare per l’elezione in una circoscrizione ben precisa. Nelle altre scatteranno i concorrenti che lo seguono. Tutti scelti con le preferenze”.
La trappola delle preferenze
Anche in tal caso le motivazioni che animano i fronti contrapposti riportano a una visione alternativa di forza politica. Renzi ha abbandonato l’antica passione per l’istituto delle preferenze, perché ha visto quante trappole e insidie possa riservare alla costruzione di un Partito democratico plasmato sulle sue ambizioni riformatrici.
Un numero rilevante di parlamentari di fiducia alla guida delle liste gli permetterebbe di contare su un nucleo robusto capace di attrarre i rappresentanti scelti liberamente nei territori. Ma la speranza di costituire una compagine uniforme e compatta a servizio del premier è messa a repentaglio proprio dalle preferenze.
Prassi che in molte occasioni ha visto eccellere gli esponenti delle realtà più ostili alla “filosofia nordamericana di Pd leggero e liberal” rivendicata da Renzi: i Democratici di sinistra legati a Bersani e Massimo D’Alema, e i Popolari post-Dc vicini a Bindi ed Enrico Letta. Convergenti nel ritenere le preferenze uno strumento utile per rilanciare l’idea di partito socialdemocratico radicato nel territorio e attento ai corpi intermedi.
Tutti concordi nel No ai collegi maggioritari
Nel conflitto rovente che sta lacerando la formazione favorita per le prossime elezioni un unico tema registra la condivisione di tutte le componenti.
Non si tratta del calcolo dei voti per l’attribuzione dei seggi, dell’ampiezza delle circoscrizioni, della clausola di accesso, della soglia del 40 per cento di consensi necessaria per evitare il ballottaggio.
Ma della rimozione dall’orizzonte politico dei collegi maggioritari uninominali scelti dai cittadini italiani con il referendum dell’aprile 1993. Un meccanismo che il Pd aveva ufficialmente abbracciato in un’Assemblea nazionale del 2009, come architrave di una democrazia bipolare o tendenzialmente bipartitica che rende aperte le competizioni elettorali.