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Perché è giusto porre la fiducia sull’Italicum. Parla il prof. Stefano Ceccanti

È iniziata nell’aula di Montecitorio, con il voto sulle pregiudiziali di costituzionalità e soprattutto con il preannuncio della questione di fiducia da parte del governo tra le roventi proteste delle opposizioni, la partita cruciale per la riforma elettorale voluta da Matteo Renzi. Pronto a correre il rischio di strappi laceranti con la minoranza del Partito democratico pur di superare le incognite che costellano l’ultimo miglio della travagliata navigazione dell’Italicum.

Legge appoggiata con convinzione dal costituzionalista Stefano Ceccanti, che con i colleghi Augusto Barbera e Francesco Clementi ha ingaggiato un vivace confronto con la sinistra del Nazareno.

Professor Ceccanti, l’apposizione della questione di fiducia sulla riforma elettorale non rappresenta una forzatura eccessiva da parte del premier?

È del tutto legittimo, oltre che previsto dal Regolamento della Camera, richiedere la fiducia a fronte di voti segreti su punti che il governo ritiene immodificabili. Nessun obbligo viene imposto ai parlamentari. L’eventuale bocciatura del testo comporta soltanto la caduta dell’esecutivo. Che evidentemente rifiuta di galleggiare e vuole assumere tutte le responsabilità di fronte all’opinione pubblica.

La strategia promossa dal Presidente del Consiglio è aspramente osteggiata dai rappresentanti della minoranza Pd. Alcuni di loro hanno ricordato il precedente della legge elettorale Acerbo.

Trovo inaccettabile un parallelismo che nessun democratico dovrebbe utilizzare. Il percorso di approvazione di quel meccanismo di voto fu costellato dalla violenza fascista. Fu realizzato nella cornice di uno Statuto Albertino flessibile – modificabile tramite legge ordinaria – e nell’assenza di una Corte Costituzionale indipendente. Il richiamo storico, peraltro, dovrebbe essere esteso al governo di Alcide De Gasperi, che nel 1953 promosse e pose la fiducia su una riforma elettorale di tipo maggioritario per non essere costretto ad allearsi con la destra monarchica e missina.

L’ex premier Enrico Letta critica gli “strappi dell’esecutivo sulle regole del gioco”. E teme una “vittoria di Renzi tra le macerie del Pd.

Il governo guidato da Letta ha fornito prova di notevole attivismo in campo istituzionale. Legando il proprio mandato alla prospettiva di un nuovo modello istituzionale e creando un commissione di studiosi presieduta dall’allora responsabile per le Riforme Gaetano Quagliariello. Segno che l’esecutivo si faceva carico dei contenuti prodotti dal comitato. Lo ha fatto attraverso una legge costituzionale che derogava rispetto alle procedure previste dall’Articolo 138 della Costituzione. Rilevo poi un ulteriore elemento.

Quale?

Come figura politica esperta di Unione Europea, Letta sa che i governi degli Stati membri presentano ogni anno un piano nazionale di riforme. Programma che rende credibili, agli occhi dei partner comunitari, gli sforzi per i cambiamenti in campo economico-sociale. E del quale fanno parte le innovazioni dell’ordinamento istituzionale. Capitolo che l’ex vice-segretario del Partito democratico aveva riportato nell’agenda del governo rispetto alla stagione dell’esecutivo Monti.

Gli avversari della riforma lamentano l’assenza di contrappesi efficaci a un premier fortemente legittimato.

Ricordo che il margine di seggi aggiuntivi contemplato dal bonus di governabilità ammonta a 30 parlamentari, pari al 54 per cento del totale. Le soglie previste per l’elezione di tutte le istituzioni di garanzia – Presidente della Repubblica, Corte Costituzionale, Consiglio superiore della magistratura – sono nettamente superiori a tale cifra.

Ritiene possibile superare i capilista bloccati consentendo la scelta di tutti i parlamentari tramite le preferenze?

Aver introdotto l’elezione del 70 per cento dei rappresentanti con le preferenze, garanzia di pluralismo per la formazione vincente, è già una concessione rilevante alla minoranza del Pd. È il massimo compromesso possibile, che peraltro peggiora la legge elettorale rispetto alla versione originaria fondata su listini bloccati molto corti.

L’esclusione della facoltà di apparentamento nell’eventuale ballottaggio non restringe la partecipazione dei cittadini alla scelta del governo?

Ad essere emarginati sono i gruppi dirigenti delle forze politiche rimaste fuori dal secondo turno. È il loro potere di negoziazione e interdizione che viene penalizzato. Ma i loro elettori possono giocare un ruolo decisivo nel decidere il vincitore del ballottaggio.

La possibilità di costruire alleanze al secondo turno è prevista dalla legge elettorale delle grandi città.

Certo. Tuttavia la più marcata frammentazione presente nelle coalizioni comunali fondate su un meccanismo proporzionale è bilanciata dall’investitura popolare diretta del sindaco, dal principio “simul stabunt simul cadent” che lega assemblea e giunta, dall’attribuzione di un premio di maggioranza del 60 per cento dei seggi. A livello nazionale è necessario un modello più stringente, in grado di garantire maggiore stabilità in una cornice di governo parlamentare.

Un obiettivo del genere avrebbe potuto essere assicurato da un meccanismo maggioritario di collegio come in Francia e in Gran Bretagna?

L’uninominale, a uno o a due turni, funziona efficacemente se la sfida è la stessa nella gran parte dei territori. Ma nell’eventualità, molto probabile in Italia, di competizioni a geometria variabile con forze politiche differenti – Pd, M5S, Lega Nord-Forza Italia – il rischio è la frammentazione del voto e la mancanza di legittimazione popolare della maggioranza di governo. Le regole approntate dal governo Renzi evitano questa incognita, canalizzando e strutturando in un binario nazionale lo scontro partitico locale.

Angelo Panebianco e Antonio Polito hanno evocato sul Corriere della Sera lo scenario di un partito vincente “gigante fra tanti cespugli marginali”.

Il rischio scaturisce dalla previsione di una soglia di accesso parlamentare molto ridotta, pari al 3 per cento dei voti. Per ricercare il consenso del Nuovo Centro-destra, è stato stabilito di sostituire il premio alla coalizione con il bonus alla lista vincente. E la clausola di sbarramento molto elevata è diminuita in modo significativo. Ritengo tuttavia che l’adozione del premio alla formazione più votata possa favorire percorsi di aggregazione in primo luogo nel centro-destra. Con un panorama ben diverso rispetto alla fotografia della realtà partitica attuale.

L’attribuzione del premio di maggioranza al singolo partito potrebbe favorire la creazione di liste eterogenee e conflittuali.

È necessario mostrare omogeneità politica nelle formazioni in campo. Ma il punto chiave è se all’interno della lista viene rispettata una disciplina di maggioranza. Esattamente come Pier Luigi Bersani aveva fatto per la coalizione “Italia Bene comune”, protagonista del voto del febbraio 2013. Deve essere chiaro che la minoranza si allinea alle scelte della maggioranza. Per questo motivo la partita sull’Italicum è importante.

Nutre fiducia per l’approvazione della riforma o teme colpi di scena nel voto segreto finale?

Nella politica parlamentare tutto è possibile. Se la legge dovesse essere respinta, non vedo maggioranze alternative a supporto di un nuovo governo. D’altro canto il Capo dello Stato non vedrebbe di buon grado il ricorso a elezioni anticipate proprio all’inizio del mandato presidenziale. Vi è poi un elemento giuridicamente rilevante di cui si parlò alla fine della scorsa legislatura.

Quale?

L’esigenza di approvare le regole elettorali in una fase lontana dal ritorno alle urne rientra nelle indicazioni del Consiglio d’Europa. La ragione è evitare l’utilizzo partigiano delle nuove norme da parte del governo e lasciare alle forze politiche il tempo per organizzarsi.


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