L’autore, Giuliano Cazzola, sullo stesso tema ha scritto anche questo articolo.
“L’appetito vien mangiando”: recita il proverbio. All’indomani della sentenza n. 70 che ha dichiarato l’illegittimità del comma 25 dell’articolo 24 del decreto Salva Italia del 2011 recante il taglio, negli anni 2012 e 2013, della perequazione automatica sulle pensioni superiori a tre volte il minimo, in qualche sede sindacale si è brindato non solo per gli effetti che dalla sentenza sarebbero derivati per i pensionati (una lobby potentissima all’interno delle Confederazioni), ma soprattutto per la speranza che l’ormai intrapresa “via giudiziaria al socialismo” potesse risolvere pure la questione del blocco della contrattazione collettiva nel pubblico impiego che ormai si trascina da anni e che è stato confermato da tutti i governi che nel frattempo si sono succeduti, incluso quello attualmente in carica. Il ricorso sarà discusso dai “giudici delle leggi” il prossimo 23 giugno.
Visti i tempi che corrono, possiamo aspettarci di tutto, compreso un ulteriore caso di “giurisprudenza creativa”, devastante per i conti pubblici, tanto da far ritenere che, nei testi della Carta presenti nelle biblioteche del Palazzo della Consulta, sia scomparso (per un errore di stampa?) l’art. 81. Ma al posto dei sindacalisti d’antan, non ci faremmo soverchie illusioni. Neppure un Mandrake in toga potrebbe sostenere e dimostrare che il blocco della contrattazione, ancorché prolungato, violi una qualsivoglia norma costituzionale. L’art. 36 Cost. (comma 1) stabilisce che il lavoratore «ha diritto ad una retribuzione proporzionale alla quantità e alla qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa».
È vero: i giudici, chiamati a definire tale trattamento, hanno fatto costantemente riferimento alla retribuzione di base (i c.d. minimi tabellari) previsti dai contratti collettivi nazionali di categoria o di settore produttivo (il c.d. meccanismo di estensione indiretta del contratto nazionale). Così, le retribuzioni individuate in rapporto alle tabelle fissate nei contratti collettivi nazionali sottoscritti dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative, costituiscono, in giudizio, il livello minimo vincolante per tutti i rapporti di lavoro di quella categoria o di quel settore. E in Italia esiste una rete contrattuale nazionale che praticamente non lascia scoperto nessun lavoratore.
In sostanza, con l’interpretazione giurisprudenziale dell’articolo 36 Cost. si è giunti al riconoscimento di una forma di salario minimo garantito. Il canone giurisprudenziale di “retribuzione minima” si è, dunque, storicamente consolidato, diventando di generale applicazione.
Ma dove è previsto che tale retribuzione debba evolvere secondo cadenze temporali? A noi sembra perfettamente sostenibile la tesi che, rebus sic stantibus, le retribuzioni correnti nel pubblico impiego siano proporzionali alla quantità e alla qualità del lavoro svolto e soprattutto sufficienti ad assicurare “un’esistenza dignitosa”.
Infatti, sono valutazioni, queste, che non possono essere compiute in termini assoluti, ma necessariamente relativi e quindi in parallelo con il più complessivo assetto delle retribuzioni (che nel pubblici impiego rimangono più elevate anche dopo i blocchi) e delle altre condizioni dei lavoratori dipendenti. Quanto vale – anche sul piano dell’adeguatezze degli stipendi – la stabilità dell’impiego in anni in cui venivano concessi, ai dipendenti privati, miliardi di ore di cassa integrazione? Poi, non dimentichiamolo, il discutibile bonus degli 80 euro mensili è stato riconosciuto anche ai travet, in un’unica soluzione, sia pure nell’ambito dei livelli reddituali previsti. Poi, c’è un’altra valutazione da compiere. La Corte Costituzionale ha deciso di continuare a bombardare il quartier generale? Forse non si è accorta che il Paese ha trascorso un lungo periodo di crisi da cui stenta ad uscire e che non ha bisogno di essere ricacciato indietro a causa di un’idea fondamentalista del diritto?
In una recente intervista sul Corriere della Sera, il presidente della Corte Alessandro Criscuolo, ha difeso la sentenza n. 70, ma è parso parecchio in difficoltà (anche perché, ad avviso di chi scrive, sarà difficile che la Consulta, nuovamente investita del problema, potrebbe sanzionare il decreto Poletti). Il magistrato ricorderà sicuramente le perplessità espresse da un Padre Costituente del calibro di Piero Calamandrei a proposito della automatica applicazione delle sentenze della Corte, che, a suo dire, costituivano un’invasione indebita nel campo della politica.
Sarebbe opportuno, allora, che i “giudici delle leggi’’, il 23 giugno, si limitino, al massimo, ad invitare il Governo a provvedere al più presto per uscire da una situazione oggettivamente d’emergenza ed anomala. Del resto, non potrebbero fare altrimenti. In materia di rivalutazione delle pensioni c’era sullo sfondo un meccanismo di calcolo da applicare. Ma si può condannare – con una sentenza immediatamente applicabile un Governo a stipulare un contratto? Con quali regole? Con quali oneri? Non scherziamo.