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Vi dimostro che il Sud non è un cimitero industriale

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Ma ha senso continuare a presentare il Mezzogiorno solo come un imminente deserto industriale come si scrive nell’anticipazione del Rapporto della Svimez che si è presentata a Roma giovedì 30 luglio? Ha senso parlare di prossima deindustrializzazione dei territori meridionali, quando – nonostante la durissima recessione degli ultimi anni – settori strategici dell’industria italiana continuano a localizzarsi e a produrre proprio nel Sud?

E del resto negli ultimi Rapporti della stessa Svimez non sono stati ospitati saggi sul manifatturiero nelle regioni meridionali che smentiscono, o almeno attenuano fortemente, ogni eccesso di catastrofismo del suo vertice? Si consideri l’apparato industriale del Sud: acciaio, chimica di base, energia, automotive, aerospazio, farmaceutica, macchine movimento terra, aerogeneratori, agroalimentare, cemento, legno-mobilio, tac, Ict, navalmeccanica, impiantistica.

Big player mondiali, fra cui molti italiani, presenti sul territorio: Eni, Enel, Ilva, Alenia Aermacchi, Barilla, Ferrero, Unilever, Coca Cola, Hitachi, Adler, AgustaWestland, Salver, LyondellBasell, Jindal, Vestas, Cnh, Teleperformance, Transcom, Sanofi, Merck Serono, Novartis, Pfizer, STMicrolectronics, SSI, Heineken, Birra Peroni, Natuzzi, Cementir, Buzzi Unicem, Colacem, Italcementi, accanto ai quali operano ben 27.186 Pmi locali – da 10 a 249 addetti – con 681.725 occupati e un fatturato nel 2012 di 126,5 miliardi di euro (Fonte SRM-Confindustria).

Un dato per tutti: le tre più grandi fabbriche del Paese per numero di occupati diretti sono nel Sud, ovvero l’Ilva a Taranto (11.331), la Sata-FiatChrysler a Melfi (8.000) e la Sevel (Fiat-Peugeot) (6.105) ad Atessa (CH), ognuno con filiere di attività indotte qualificate. Sono noti alla grande opinione pubblica questi dati? Naturalmente di ognuna di queste presenze industriali andrebbero aggiornate le specifiche tipologie produttive, gli investimenti realizzati o in corso, le dinamiche congiunturali, le esportazioni raggiunte, gli attuali livelli occupazionali, le particolari problematiche riguardanti il loro esercizio e le criticità che le riguardino. Ma questo approccio analitico ravvicinato – come ad ogni altro contesto produttivo del Sud – solo la SRM del Banco di Napoli lo compie con le sue strutture di ricerca e qualche studioso di Università meridionali.

Ora, intendiamoci bene: nessuno e men che meno il sottoscritto, vuole ignorare le dismissioni aziendali avvenute, minacciate, incombenti o rientrate, le crisi anche prolungate di molti stabilimenti, le riduzioni di loro personale, il ricorso massiccio agli ammortizzatori sociali, le persistenti difficoltà dell’edilizia; e naturalmente nessuno vuole ignorare o sottovalutare le mobilitazioni sindacali e popolari per salvarli. Ma l’impegno di Governo e Istituzioni locali ha risolto, o sta almeno arginando costruttivamente molte crisi aziendali, come ad esempio in Puglia quelle della Bridgestone e della Natuzzi. Ma raffigurare il Meridione come un grande cimitero industriale non solo non corrisponde in alcun modo alla realtà, ma rischia – al di là delle intenzioni di chi ne scrive – di produrre solo altri effetti negativi.

Ma scusate, se dopo 65 anni di interventi dello Stato e dell’Unione Europea nel Sud i risultati appaiono nulli o, peggio, hanno accumulato solo macerie di fabbriche di ogni dimensione, ma perché Ue e Stato italiano dovrebbero continuare a destinare risorse a territori desolati e senza futuro? Meglio stanziarli allora per altre zone del Paese o per quegli Stati europei che invece stanno crescendo molto negli ultimi anni. Ma poi scopriamo che il Mezzogiorno, nonostante tutto, continua a produrre un valore aggiunto dell’industria manifatturiera che supera quello di interi Stati europei come Finlandia, Romania, Danimarca, Portogallo, Grecia, Croazia, Slovenia e Bulgaria.

Poi scopriamo che il Sud – nei settori ricordati in precedenza – detiene tuttora il primato nazionale nella produzione di laminati piani e di etilene, nell’estrazione e raffinazione petrolifera, in quella di piombo e zinco e di auto e veicoli commerciali leggeri, di parte della loro componentistica con aziende leader nel mondo nel loro segmento merceologico, in prodotti dell’industria molitoria e pastaria; e scopriamo anche che il Sud compete a livello mondiale nell’aerospaziale, nella produzione di energie rinnovabili, nel materiale ferroviario, negli elettrodomestici, nel tessile-abbigliamento-calzaturiero, nell’Ict, nel farmaceutico e nella nautica da diporto.

Allora se – come giustamente si afferma – è necessario un rilancio dell’intero Paese partendo dal Mezzogiorno, non sarebbe il caso di indicare (finalmente) con chiarezza quelli che restano i punti di forza della sua industria che già servono tutta l’Italia e che ancor più possono esserle necessari per dare un colpo di reni contro la crisi e per uscire dalla recessione? E non bisognerebbe poi dare merito a tanti piccoli, medi e grandi industriali e a tanti dirigenti e operai di industrie del Sud che ogni giorno lottano con successo sul mercato interno e su quelli esteri, invece di presentarli come sopravvissuti, sparuti e timorosi, di presunti tsunami industriali in un paesaggio lunare? Certe raffigurazioni dell’apparato manifatturiero del Mezzogiorno – se ne rendano conto gli amici della Svimez – finiscono con l’infastidire proprio coloro che dovrebbero beneficiare dei presunti effetti positivi di certe loro descrizioni.

E non deve trarre inganno gli estensori delle analisi della Svimez il consenso manifestato sui giornali da coloro che – invece di studiare o conoscere a fondo e di persona il Sud – preferiscono commentare analisi di altri per conquistarsi qualche effimera attenzione di qualche testata giornalistica.

Federico Pirro – Università di Bari



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