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Perché io, già migliorista, non condivido l’attuale D’Alema

Intervista di D’Alema sul Corsera. Naturalmente il D’Alema che rimpiango è quello che veniva accusato di non “dire una cosa di sinistra”! Semmai perché diceva “cose utili”.

Non sono mai stato dalemiano. Anzi. politicamente come migliorista, sempre molto lontano. Ma sono amico di D’Alema, dagli anni della Fgci. E sono stato suo sostenitore, sempre convinto, in tante delle sue battaglie: quella come segretario del partito al posto di Veltroni; quella che lo oppose al conservatorismo di Cofferati in un famoso congresso del Pds; quella sul tentativo della Bicamerale; quella contro l’ideologismo dell’Ulivo; quella, come Presidente del Consiglio che ruppe i tabù della sinistra imbelle e portò giustamente l’Italia in guerra a fianco degli Usa e dell’Occidente; quella, nel Pd di Veltroni, che per richiamava il tema antico delle alleanze e del rapporto con i cattolici democratici; quella per leggi di riforma elettorali realistiche ed europee ecc. D’Alema per me è stato il leader post-comunista più vicino a diventare un leader socialista europeo. Quello che io volevo da una vita.

Ma gli è sempre mancato qualcosa. A me il difetto di D’Alema appare questo: quando gli è capitato di dirigere il Partito o il Governo è stato un vero socialdemocratico. È stato innovatore (nei propositi), avversario dell’estremismo di sinistra, del conservatorismo sindacale, fortemente atlantista ed europeista, diffidente di certi difetti gravi della sinistra in Italia: la subalternità all’ideologia de La Repubblica; il giustizialismo; l’antiberlusconismo antropologico. Ma quando sta in minoranza D’Alema (come il dottor Jeckyll) si rivolta come un calzino: diventa settario, rinnega le sue vecchie idee moderniste, torna a fare il leader “ex comunista dell’est” (ufficialmente post ma in realtà nostalgico).

Nelle sue posizioni attuali e nel tipo di opposizione a Renzi mi colpiscono, in negativo, due cose: 1) D’Alema (come tutta la minoranza Pd) nella critica a Renzi non fa mai accenno alle sue (di Renzi) riforme e innovazioni. Che sono per me l’aspetto invece decisivo del giudizio. Quando accennano vagamente alle riforme o alle proposte di Renzi è solo per dire, malignamente, che assomigliano a quelle di Berlusconi. Critica sciocca: non è detto che ogni cosa proposta da Berlusconi, ma poi mai realizzata, fosse sbagliata. Così si alimenta solo una diatriba – berlusconi e antiberlusconi – che sarebbe ora di mettersi alle spalle; 2) loro fanno a Renzi, prevalentemente, critiche morali, comportamentali, caratteriali. Tese ad alimentare la tesi, sciroppo e litania di ogni scolastica posizione estremista, che Renzi sia antropologicamente diverso da uno di sinistra. E, in fondo, sarebbe di destra.

Ma D’Alema che intende per “uomo di sinistra”? Chi interpreta il modello? Dove è esposto il manichino del leader di sinistra? È possibile che siamo ancora a questi infantilismi settari? Si facciano a Renzi critiche politiche, di merito sulle riforme che fa o non fa, su ciò che è utile o dannoso per il Paese, il bersaniano “bene comune” (che non è, però, benecomunismo), su quello, insomma, che Renzi fa o propone. Basta con questa arcaica tiritera per cui il metro di misura per giudicare Renzi non è l’interesse nazionale o ciò che serve all’Italia ma, il metro diventa, quanto è distante dalla “sinistra”. Chi fornisce la misura? Qual è la sinistra da cui Renzi si distaccherebbe? In quale tribunale o libro si legge che cosa è oggi il modo fedele di interpretare la sinistra? Un modo infantile, minoritario e scolastico di impostare il confronto nel Pd.

D’Alema è abbastanza anziano per sapere che, su basi miserabili come questa (“chi è o non è di sinistra”) il confronto evolverebbe rapidamente in scissione. Perché alla critica politica si sostituisce la delegittimazione ideologica e morale dell’avversario: la tragedia epocale e storica di tutte le sconfitte della sinistra. Di tutte le critiche di merito (mancanti) a Renzi, nell’intervista di D’Alema, resta una che mi agghiaccia per la sua vecchiezza e arcaicità: quella che, perdendo il Pd dei voti in Emilia Romagna o nell’astensione, dimostrerebbe che Renzi si allontana dalla “nostra gente”. Agghiacciante. Primo: quella gente non solo, in parte, si astiene, ma in molti votano Salvini (e non Vendola). In parte, cioè, passano a destra. Perché questi per D’Alema non fanno testo? Invece di discettare sull’elettorato “nostro” o “loro”, tesi ridicola, perché non ci preoccupiamo della ragione per cui, in molti posti del Nord, il tradizionale elettorato di sinistra oggi è così mobile e va anche a destra? Fenomeno, tralaltro, non cominciato affatto nei due anni di Renzi.

Secondo: per tenere chi si astiene in Emilia Romagna, Renzi dovrebbe rinunciare a conquistare chi non ha mai votato il Pd in Italia, tenendolo ammanettato in eterno al muro del 30%, tendente al basso? Che sciocchezza è mai questa? Perfino il Pci avvertiva il peso di restare legato al “voto di appartenenza” e lo avvertiva come limite. Non come valore. Terzo: se Renzi perde la sua scommessa elettorale, caro D’Alema, non sarà perché non fa il pieno della “nostra gente”(sic) ma perché fallisce nella sfida a conquistarne nuovi tra i moderati, quelli che votano al centro-destra, i giovani che non ci hanno mai votato ecc ecc. Col pieno della “nostra gente” abbiamo sistematicamente perso. Per la prima volta, con Renzi, la possibilità di andare oltre la “nostra gente” è concreta. Il pd può vincere. E tu che fai? Ti metti di traverso in nome dei voti (una parte, poi) della “nostra gente”? Pazzesco.

Renzi perde se non aggiunge voti alla “nostra gente”. E non li aggiunge se fallisce nell’apparire uno che innova e fa riforme. Altro che la “nostra gente”. La minoranza Pd dovrebbe condividere questo assunto. Non stare lì, ferma e afasica sulle riforme. E preoccupata solo su quanto ci si allontana da una vecchia e stantia rappresentazione della sinistra, fatta da un gruppo umano antropologicamente distinto dagli altri italiani: la “nostra gente”. Sostituiamo a questa categoria inesistente, la “nostra gente” e mettiamoci “gli italiani”, caro D’Alema, e il confronto con Renzi fa un salto di qualità (e di utilità).

Infine, caro Massimo, la chicca finale dell’intervista: “A destra votano per convenienza, a sinistra votano per convinzione”. Una sciocchezza. L’eterna supponenza di dividere gli italiani per tipi umani, geneticamente diversi (destra e sinistra), il topos dell’antipatia della sinistra, della sua presunzione immotivata, della pretesa respingente di rappresentare non italiani che si riconoscono in un programma diverso da quello della destra, ma in italiani “diversi” e moralmente superiori.

Così D’Alema e la “sua gente” verrebbero, giustamente, in un’elezione democratica mandati allegramente a quel paese. Come è giusto che sia!



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