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Così la guerra sciiti e sunniti ha portato Isis in Yemen

Nove mesi di conflitto «hanno lasciato un’amara eredità» in Yemen, scrivono Shuaib Almosawa, Kareem Fahim ed Eric Schmitt in un reportage dedicato alla guerra civile nel Paese uscito sul New York Times: «un nuovo ramo dello Stato islamico che è tranquillamente cresciuto e rafforzato, e sembra determinato a distinguersi come la forza più dirompente e brutale nella crisi yemenita, realizzando attacchi considerati troppo estremi anche dalla filiale locale di al Qaeda», proseguono i tre giornalisti.

TENSIONI SCIITI/SUNNITI

Gli assalti dell’Isis a marzo, contro moschee sciite della capitale Sana’a, hanno ucciso 130 persone e hanno dato il via alla guerra civile. Nelle ultime settimane il sedicente Califfato ha colpito con una serie di autobombe il sud del Paese: nella più eclatante, ad Aden, è rimasto ucciso il governatore locale, mentre un’altra ha colpito l’hotel in cui si trova il governo provvisorio locale. Il gruppo ha pubblicato anche alcuni video in cui si abbinano sanguinarie esecuzioni sommarie a minacce settarie contro la minoranza sciita. In uno, si vedono uomini armati e mascherati che conducono dei prigionieri (sciiti) ad una piccola barca: questa, prima prende il mare e poi viene fatta saltare in aria. In un altro, ci sono quattro prigionieri (combattenti houthi) che portano al collo pallottole da mortaio, poi, una volta messi in posa davanti alla cinepresa, vengono fatti esplodere. L’Isis, secondo diversi osservatori, gioca molto del suo ruolo sull’aumentare l’entropia presente in situazioni di crisi, colpendo spesso (come con le moschee a marzo) anche i civili per massimizzare gli effetti: questa polarizzazione del conflitto tra i due rami dell’Islam è ciò che è stato visto in Siria, per esempio, dove prima dell’entrata in guerra dello Stato islamico, la ribellione contro il regime non aveva come obiettivo principale di colpire gli sciiti (il presidente siriano Bashar al-Assad è alawita, una setta sciita. ndr), ma soltanto rovesciare un rais considerato repressivo e crudele, in cerca di scampoli di democrazia. In Yemen il “califfo” trova terreno fertile, dato che i rivoltosi Houthi, sciiti sostenuti dall’Iran, hanno prima rovesciato la resistenza del governo sunnita del presidente Abed Rabbo Mansour Hadi, per poi trovare l’opposizione di uno degli sponsor del deposto presidente, l’Arabia Saudita (regno di riferimento del mondo sunnita) che si è fatta promotrice di una coalizione militare che avrebbe dovuto fermare i ribelli, ma che in realtà, sostenuta anche da altre monarchie sunnite del Golfo e da alcuni Paesi arabi sunniti (l’Egitto o il Pakistan, dove la divisione settaria è forte), altro non ha fatto che polarizzare ancora di più la situazione. Una questione largamente criticata dall’Iran, parte in causa di quest’altra guerra per procura tra sciiti e sunniti su campo yemenita, che ora avrà anche un altro appiglio: la crescita dell’Isis dopo l’intervento saudita.

SCONTRO CON AL QAEDA 

Se finora da questa situazione aveva ottenuto vantaggio la filiale qaedista locale, Aqap (al Qaeda in Arabic Peninsula), ben radicata in diverse aree della vasta provincia centro-orientale, ora lo Stato islamico si sta inserendo nella partita. E anche se davanti a sé trova una strada complicata dalla presenza di Aqap, «il ramo yemenita [dell’Isis] deve essere preso sul serio nel lungo periodo» dice un funzionario dell’intelligence americana al Nyt. Il motivo è che secondo gli analisti dei servizi segreti statunitensi, pare che come già visto succedere in Libia o in Egitto, anche in Yemen il “califfo” stia spostando elementi di primo piano nell’organigramma dello Stato islamico (strategia che è riscontrabile anche dal gran numero di province dell’Isis sorte in Yemen nell’ultimo anno). E se la presenza di uomini del Califfato all’inizio della guerra civile era una realtà marginale, con la diffusione del conflitto il gruppo è riuscito a magnetizzare proseliti e spingere il reclutamento tra le proprie linee.

Basso profilo. Lo Stato islamico finora s’è mosso in Yemen come un’entità nascosta, spesso mascherata sotto altri gruppi combattenti, secondo un piano strategico già visto attuare due anni fa in Siria, quando si affacciava al conflitto, o in Libia (per esempio, questo sta succedendo nell’area di Sabratha, al confine tunisino, dove salvo in due occasioni lo Stato islamico ha mantenuto un profilo basso, per non attirare troppo l’attenzione e così strutturarsi più liberamente). L’Isis, allo stesso modo di al Qaeda nelle aree costiere di Mukallah, nel sud dov’è molto forte, ha approfittato del caos creato dalla guerra civile per cercare di diffondere le proprie istanze tra i sunniti locali. I baghdadisti (e pure i qaedisti) hanno potuto muoversi senza che istituzioni e forze di sicurezza potessero rappresentare un elemento di opposizione; allo stesso tempo la coalizione guidata dai sauditi non si è mai concentrata su loro come obiettivi. Ora i due gruppi si trovano opposti sul campo: Isis e al Qaeda sono facce di una stessa medaglia, ma divisi da segmenti ideologici e dottrinali che si tramutano in scontri fratricidi sul campo. Per alcuni esperti, tuttavia, non è da escludere che alcune fazioni interne ad Aqap possano muoversi verso l’Isis, facendo da bacino radicale locale (una situazione del genere s’è vista già in Libia, con Ansar al Sharia, filo-qaedista, che ha fatto da network di attecchimento per il Califfato a Sirte).

FASE DIPLOMATICA

Ieri è iniziato a Ginevra un nuovo round dei negoziati promossi dalle Nazioni Unite (il primo era fallito a giugno) per trovare una soluzione politica alla crisi: nel frattempo la coalizione guidata da Riad ha iniziato una settimana di cessate il fuoco come mossa di apertura in vista dei colloqui di pace. Non era mai successo finora e gli osservatori vedevano la volontà di non fermare i bombardamenti come un metodo per infliggere il maggior danno possibile all’avversario prima dell’inizio degli incontri: questione che sarebbe stata alla base di tutti i confronti saltati fin qui. Ora la decisione saudita sembra un altro segnale di apertura per risolvere questa che è anche una crisi che coinvolge importanti interessi, dato che lo Yemen è un angolo da cui passano importanti rotte commerciali. L’apertura saudita, peraltro, è in linea con l’annuncio della creazione di una forza combattente anti-terrorismo regionale, che avrà sede operativa a Riad e che coinvolge 34 Paesi tra Medio Oriente (c’è anche lo Yemen) e Africa. Lo Stato islamico è nemico degli Houthi sciiti tanto quanto dei regnanti del Golfo considerati “inquinati” dall’Occidente, ragion per cui potrebbe esserci anche un altro motivo per raggiungere un accordo.

SOTTOVALUTAZIONE DELLA MINACCIA

La presenza dello Stato islamico nel territorio yemenita è stata, a detta di molti osservatori, sottovalutata sia dai funzionari governativi sia dalla coalizione saudita (che è sostenuta anche da Stati Uniti, Regno Unito e Francia). La scorsa settimana, davanti alla rivendicazione dell’Isis dell’uccisione del governatore provinciale di Aden, il direttore della sicurezza della città, Mohamed Mousaed, ha insistito che “chi era restato degli Houthi e Saleh” aveva effettuato il bombardamento (Ali Abdullah Saleh è l‘ex presidente dello Yemen, deposto con la Primavera araba, e ora alleato dei ribelli). La morte del più alto funzionario amministrativo ad Aden, è stato un colpo duro per la coalizione saudita, perché lo aveva “imposto” come simbolo di un territorio liberato dai ribelli. Sette giorni fa, lo Stato islamico ha spiegato con le sue azioni che c’è un’altra minaccia che si sta facendo largo su quello stesso territorio.

 

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