«Siamo in Iraq per l’addestramento ma anche con un’operazione importante per la diga di Mosul» ha detto martedì al programma televisivo “Porta a Porta” il premier italiano Matteo Renzi. Spiegava così l’invio di 450 soldati italiani a difesa dell’infrastruttura nel nord dell’Iraq. Un’azienda italiana da anni attiva in Iraq, la Trevi di Cesena, ha vinto la gara d’appalto per la ricostruzione, e dunque tutelare i lavoratori e gli interessi italiani è diventata una questione di interesse nazionale (Renzi dice che la sicurezza sarà fornita anche da militari americani).
LA DIGA
La diga di Mosul è in piedi dal 1980 (operativa dal 1986) ed è la più grande diga di tutto l’Iraq. Sbarra il Tigri all’imbocco della regione storica mesopotamica: la sua costruzione è stata circondata da un’aura di magnificenza, con cui l’opera ingegneristica è stata propagandata come la dimostrazione della grandezza del regime di Saddam Hussein (viene chiamata anche “Saddam Dam”, la diga Saddam). L’impianto idroelettrico mosso dagli 11,1 chilometri cubi dell’invaso, provvede a fornire elettricità ai due milioni di abitanti Mosul e gestisce l’approvvigionamento idrico su una vasta area. L’infrastruttura soffre di problemi di instabilità fondale noti fin dal 2007: come spiega un rapporto Usa ripreso in un’infografica della BBC, già ai tempi la sistemazione della diga richiedeva «misure di ingegneria straordinarie» (citazione diretta del report dei genieri americani ripresa dalla ABC) e per questo la ditta italiana è chiamata ad intervenire. Quando lo Stato islamico tra il luglio e l’agosto del 2014 prese il controllo della diga, molti analisti temettero che l’Isis potesse ridurre le forniture di acqua ed elettricità, ma soprattutto la paura si concentrò sul fatto che o per dolo o per incuria, lo sbarramento potesse rompersi e versare tutto l’immenso bacino nella valle sottostante.
IL VALORE STATEGICO
In un articolo uscito sul New York Times in quei giorni dello scorso anno, Stuart W. Bowen Jr., l’ex ispettore generale speciale per la ricostruzione dell’Iraq, che ha curato il rapporto del 2007 sulla diga, ha detto che l’Isis avrebbe potuto certamente utilizzare la diga come arma di guerra, ma che il suo interesse sarebbe stato anche nell’utilizzarla come strumento di finanza, cioè per estorcere denaro in cambio di acqua o elettricità. In quel periodo si era già assistito a quella che venne definita “la guerra dell’acqua” (parlando di controllo ed uso “militare”): lo Stato islamico entrato in controllo della diga di Nuaimiyah (sull’Eufrate, nei pressi di Falluja, area centro-occidentale dell’Iraq) ne aprì deliberatamente gli invasi sui trecento chilometri quadrati intorno per “annegare” le forze governative. Karbala, Najaf, Babilonia e Nasiriyah, restarono senz’acqua, mentre Abu Ghraib fu completamente inondata: l’Onu stimò che 12mila persone rimasero senza casa. Azzam Alwash, un ambientalista di primo piano, ingegnere e fondatore di “Nature Iraq”, un gruppo no-profit, disse al NYTimes che se una circostanza del genere si fosse verificata a Mosul «sarebbe stato uno tsunami che scende dal Tigri». Ovviamente il discorso valeva anche per un danneggiamento accidentale, legato alle instabilità strutturali a cui l’Isis non avrebbe potuto far fronte.
L’AREA, ADESSO
Il lavori di manutenzione di cui si occuperà la ditta italiana sono dunque una necessità stringente e possono essere portati a termine adesso che la situazione è relativamente più tranquilla. La diga, e un buon perimetro intorno, sono usciti dal controllo dello Stato islamico dal 17 agosto 2014, quando i Peshmerga curdi, in collaborazione con i raid aerei della coalizione guidata dagli Stati Uniti, sono riusciti a far arretrare le posizioni dell’Isis. Sul Foglio Daniele Raineri ha definito la zona «a pericolosità variabile», perché è vero che si trova a circa quaranta chilometri da Mosul, dove il Califfato è presente in forze, ma è ben isolata da un cordone di sicurezza garantito dai soldati del Kurdistan iracheno: «Un confine netto difficile da varcare», ragion per cui i militari italiani non saranno schierati in un’area di prima linea, ma che comunque ha alta sensibilità.
MOSUL PER L’ISIS
Che lo Stato islamico possa mantenere un interesse verso l’infrastruttura è possibile, che lo possa fare per provocare danni con il versamento delle sue acque, attualmente è difficile, perché la prima città ad essere allagata sarebbe Mosul, che è di fatto la capitale irachena dello Stato islamico, la seconda città più importante per il gruppo dopo Raqqa, e l’abitato più grande sotto il controllo dei baghdadisti. Mosul ha per l’Isis un particolare valore simbolico: Abu Bakr al-Baghdadi (nella foto), prima di diventare leader (nel 2010), era comandante militare di al Qaeda in Iraq, proprio in questa zona. Erano gli anni dell’occupazione americana, e le violenze nell’area avevano due obiettivi: i soldati statunitensi e i curdi, che si trovano poco a nord e sono considerati infedeli e traditori, perché non sono musulmani e perché, soprattutto quelli iracheni, sono alleati occidentali (hanno forti rapporti con gli Usa e anche con l’Italia). La zona di Mosul, secondo certe letture, è l’ultimo pezzo di terra islamica prima del Kurdistan, e per questo è stata teatro di lotte violente fin dal 2004: fu anche l’ultima ad essere liberata dalla presenza degli insorti sunniti post guerra d’Iraq.
Simbologie per immagini. Il valore simbolico che Mosul ha per l’Isis è spiegabile con due immagini. La prima: dopo la grossa avanzata del 2014, che finì proprio con la presa di Mosul, Baghdadi scelse proprio la moschea più importante della città per apparire in pubblico e proclamare la creazione del nuovo Califfato (in quell’occasione l’acronimo Isis cambiò ufficialmente in Islamic state, ma il primo è ancora molto usato). Fu quella l’unica apparizione pubblica dell’autoproclamato califfo. L’immagine di quell’uomo coperto da una tunica nera che pronuncia la khutba, il sermone, più importante di questi ultimi anni dal pulpito della Grande Moschea di Mosul, resterà nella storia come un 11 settembre senza demolizioni e aerei. Seconda immagine: Human Rights Watch sostiene che una delle più grandi esecuzioni di massa eseguite simbolicamente dal Califfato, ha avuto proprio come teatro la prigione Badoush di Mosul. Il 9 giugno del 2014 lo Stato islamico entrò nel carcere quasi senza resistenza (le guardie erano già fuggite) e divise i detenuti in due gruppi: da un lato i sunniti, che furono lasciati liberi (tra loro c’erano anche diversi membri del gruppo prodromo del Califfato, e dunque amici di chi li stava liberando), dall’altra sciiti e etnie minoritarie, che furono trasferiti in una zona desertica poco fuori la città e trucidati. Erano circa seicento persone (soltanto il massacro dei cadetti iracheni a Tikrit avrà poi dimensioni maggiori). Una strage simbolica, raccontata ma mai mostrata nei video dello Stato islamico, che serviva per spiegare che chi non era un fedele sunnita andava incontro alla morte. Si dice che ad aprire il cancello della prigione fosse presente il califfo Baghdadi in persona, e dunque la pulizia etnica è stato un suo ordine diretto: un passaggio immaginifico dal potentissimo peso evocativo, fondamentale nella creazione del proselitismo del Califfato.
L’OFFENSIVA SU MOSUL
La seconda città più grande dell’Iraq, doveva essere oggetto di un’offensiva che aveva lo scopo di riprenderla dalle mani del Califfo (si parlava proprio di liberarla, e non di isolarla come nel piano che riguarda Raqqa, l’altra capitale). L’azione sarebbe dovuta partire nella primavera di quest’anno, ma a tutti gli effetti, salvo isolati passi avanti fatti dai curdi, niente si è mosso: sarà una battaglia cruciale, quando arriverà, ma per il momento consegna al mondo un’altra immagine, quella dello stallo davanti all’Isis («Non è stato contenuto» ammetteva due giorni il segretaria alla Difesa americano Ashton Carter). L’area di Mosul è anche stata teatro delle prime operazioni mirate per decapitare la leadership dello Stato islamico: diversi leader furono colpiti e uccisi, a testimonianza che nell’area l’intelligence funziona, è pronta, ma ancora non parte l’attacco finale. Quello che invece sta succedendo a Ramadi, dove gli iracheni con l’aiuto aereo americano stanno cercando di riprende il controllo del capoluogo dell’Anbar, che è un obiettivo considerato più facile: negli ultimi giorni però sono morti oltre sessanta soldati iracheni, uccisi da una serie ripetuta di azioni suicide.
UN COMMENTO
Niente è facile contro lo Stato islamico: Alberto Negri, esperto di Medio Oriente del Sole 24 Ore ha commentato su Facebook la scelta di Renzi di comunicare l’invio dei militari italiani dalle poltrone di “Porta a Porta”, sostenendo che decisioni del genere vanno comunicate e discusse in Parlamento. Negri, chiede di valutare il rapporto rischi/benefici della missione, ed evoca la ferita ancora aperta dell’attentato di Nassiriya, dove 50 persone rimasero uccise per l’esplosione di una camion bomba in una base militare in cui si trovavano anche gli italiani (25 il bilancio finale dei morti tra i nostri connazionali). Proprio oggi, sei Peshmerga sono morti in una base distante circa 20 chilometri dalla diga di Mosul, dove un kamikaze dell’Isis s’è fatto esplodere; vicenda simile è avvenuta, sempre oggi, in un’altra base nella zona, contro il contingente turco.