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Come e perché lo Stato islamico difende Mosul

Nella notte di mercoledì lo Stato islamico ha condotto il più importante attacco nel nord dell’Iraq degli ultimi cinque mesi, con un’offensiva lanciata contemporaneamente in tre punti distinti tra il nord e l’est di Mosul. Lo scopo, rilevano gli analisti, potrebbe essere quello di dimostrare che l’Isis è ancora una forza combattente presente, nonostante le battute d’arresto subite sul Sinjar, e di bloccare in anticipo i possibili piani della Coalizione americana per riprendere il controllo della città. Una sorta di ansietà del Califfato per la possibile invasione e allo stesso tempo, come scrive il Washington Post, «una dimostrazione di resilienza». A magnetizzare l’attenzione dei baghdadisti, c’è stato anche l’invio da parte della Turchia di un proprio contingente (al di fuori degli accordi con l’Iraq), andato a rinforzare i soldati di Ankara che stanno fornendo addestramento militare ai curdi: la base Zilikan nella zona di Bashiqa, dove sono basate le truppe turche, è stata colpita da colpi di mortaio (o razzi Grad) lanciati dagli uomini del Califfato penetrati oltre le linee di sicurezza peshmerga.

GLI ATTACCHI DEGLI ULTIMI GIORNI

Il comandante dell’esercito americano per il nord dell’Iraq, il generale Mark Odom, ha detto al New York Times che era da luglio che non assisteva ad azioni così corpose e coordinate da parte dell’Isis nella zona. Attacchi che hanno colpito simultaneamente tre aree (Narwan, Bashiqa e Tal Aswad), coinvolgendo un centinaio di miliziani alla volta, coadiuvati dai soliti blindati esplosivi e dai pick-up armati di mitragliatrici, ai quali la coalizione ha risposto con intensi bombardamenti aerei, in cui, secondo i funzionari americani, sarebbero morti almeno 180 soldati del Califfato. Alcuni elementi delle forze speciali canadesi presenti nell’area sarebbero rimasti coinvolti direttamente in uno scontro a fuoco: «Si sono trovati sotto il fuoco effettivo e i nostri ragazzi erano abbastanza vicini e in grado di rispondere su quelle posizioni Isil (acronimo dell’Isis usato nel mondo anglosassone. ndr)», ha spiegato il generale Charles Lamarre in un rapido briefing stampa, scarno di altri dettagli (non è la prima volta che le Sof canadesi rimangono coinvolte in scontri a fuoco, anche se il governo – a detta di molti osservatori – ha sempre cercato di sminuire queste fasi “combat” per evitare polemiche politiche sull’impiego dei militari, che doveva avere, come per tutti gli altri militari della Coalizione, soltanto l’addestramento come regola d’ingaggio).

SIAMO AGLI ALBORI DELL’OFFENSIVA?

La seconda città d’Iraq, la “capitale” irachena dell’Isis, è in mano al Califfo dal giugno del 2014 e rappresenta terreno di scontro per il suo valore strategico e simbolico. Da qualche settimana ci sono manovre militari che cercano di tagliarne i collegamenti, ma l’offensiva vera e propria per sottrarla dal controllo dei baghdadisti non è mai partita e si è preferito scegliere zone più facili: prima Tikrit, poco a sud, ora Ramadi, ad ovest. Ci sono due ordini di problemi che l’offensiva può incontrare, secondo gli esperti. Primo, la presenza di oltre un milione e mezzo di abitanti civili, che, rispetto a situazioni come la quasi disabitata Tikrit, impone la massima accortezza e dunque limita l’efficacia degli attacchi (a terra o aerei). Secondo, l’impreparazione delle forze terrestri, irachene e curde, a battaglie come quella richiesta a Mosul: “Military Operations on Urban Terrain” (Mout) le chiamano in Occidente, cioè battaglie in stile guerriglia urbana, strada per strada, l’opposto degli scontri in campo aperto a cui sono stati addestrati i Peshmerga o l’Isf (Iraq Security Force).

RINFORZARE I CURDI

Il capo del Gabinetto presidenziale del Kurdistan iracheno, Fuad Hussein, ha recentemente annunciato l’incontro del suo governo con funzionari americani e turchi: tema, discutere su come contrastare lo Stato islamico. Molto probabile, secondo diversi media iracheni e curdi, che al centro della discussione finisca la strategia per riprendere Mosul al Califfato (la città si trova al confine della regione autonoma del Kurdistan). Il segretario alla Difesa americano Ashton Carter, che ha visitato il nord dell’Iraq e ha incontrato i leader curdi, ha proposto di aumentare gli aiuti militari e fornire quello che il sito specializzato Military Times ha definito «un equipaggiamento per due brigate» ai peshmerga, cosa che diversi analisti hanno colto come segnale indicatore di una preparazione tattica per l’offensiva (le armi dovrebbero arrivare dai “magazzini” americani in Kuwait).

L’IMPEGNO ITALIANO

Mosul e dintorni, sono la zona dove 450 militari italiani dovranno essere impiegati per preservare la sicurezza dei lavori di ristrutturazione della diga, appaltati ad una ditta italiana. Lo schieramento richiederà tempi logistici, è perciò prevedibile che il dispiegamento, tenendo anche conto dell’iter di discussione parlamentare, non arriverà prima della primavera prossima. A tutti gli effetti, tra qualche mese, l’Italia tornerà in Iraq e questo è motivo di dibattito politico.

Le minacce. A mettere benzina sul fuoco, le parole del capo della Kata’ib Hezbollah che ha avvisato che gli italiani a Mosul saranno considerati come una forza occupante. La brigata Hezbollah è una delle milizie sciite irachene comandate dall’Iran (come l’omonima libanese). Queste fanno parte delle forze militari che appoggiano il governo iracheno contro lo Stato islamico. Teoricamente, dunque, la Kataib sarebbe alleata occidentale e italiana, combattendo lo stesso nemico al fianco dello stesso alleato: ma in Medio Oriente, quello che avviene a Ramadi, dove le milizie sciite conducono l’offensiva, non è la stessa cosa che avviene qualche chilometro più a nord, a Mosul.


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