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Perché l’Italia deve fare la guerra a Isis anche in Libia

Anche a causa dell’aumento della pressione militare nei territori occupati fra la Siria e l’Iraq, più fonti confermano che il califfato ha deciso di trasferire i propri centri direzionali in Libia. L’operazione logistica non è di poco conto e testimonia il permanere della vocazione alla mobilità di una forma di terrorismo che aveva stupito il mondo proprio per il suo originale carattere stanziale. Si tratta di percorrere oltre 3mila km e di scavalcare indenni l’Egitto. Se la via scelta passa più a sud, attraverso il Sudan, ci si può chiedere come possano attraversare impuniti l’Arabia Saudita e guadare il Mar Rosso.

L’Institute for the study of war sta studiando le mosse di ISIS e ha constatato che sono tutt’altro che disorganizzati ma sembrano dotati di centri militari efficienti ed in grado di coordinare un wargame globale. Hanno capito che l’occidente non ha abbastanza forze per contrastare una loro espansione a livello multiregionale. Dove trovano uno Stato all’anarchia, vi assumono il potere imponendo facilmente il loro ordine a popolazioni stremate dai disordini. Occupano il territorio, creano nuove istituzioni, applicano un sistema di riscossione dei tributi.

I responsabili delle intelligence occidentali si sono dichiarati concordi nel ritenere che l’operazione militare a Parigi sia stata pianificata e guidata da Raqqa. È stata portata a termine a sorpresa ingannando i servizi occidentali che non sono stari in grado di individuare per tempo i ripetuti trasferimenti dei gruppi dei fuoco attraverso le frontiere.

Infatti, i servizi si sono concentrati sui compatrioti islamici che, plagiati dalla propaganda, tentavano di raggiungere il Califfato piuttosto che sui gruppi armati ed organizzati che viaggiavano verso occidente con compiti operativi. Interessante che questo errore sia da mesi addirittura evidenziato pubblicamente dalla propaganda ISIS (ad esempio nell’ebook Black Flags From Rome che circola in Internet) senza che nessuno abbia organizzato contromisure efficaci.

Nello stesso libro si sostiene anche che alcuni terroristi abbiano raggiunto l’Italia infiltrandosi tra i rifugiati fuggiti dalla guerra libica nel 2011 – e più recentemente dalla Siria – e che questi stiano costituendo in Italia ed in Europa cellule dormienti pronte ad attivarsi su ordine del Califfato. Avranno sapientemente mischiato verità a propaganda? Per completezza si deve aggiungere che nessuno dei terroristi, il cui cammino è stato tracciato a posteriori solo dopo gli attacchi, è arrivato coi profughi; pare che abbiano più volte attraversato le frontiere liberamente e molto più comodamente.

Con il trasferimento dei centri operativi, il baricentro del califfato si avvicina a noi di ben 3000 km e si porta a solo 300 miglia dalle nostre coste. Intere aree della Cirenaica sono cadute nelle loro mani e le tante tribù libiche si sono coordinate fra loro sotto il logo del califfato. A sud, dal Sahel alla Nigeria, i vari gruppi terroristici potrebbero facilmente costruire rapporti organici e strutturati con ISIS, se non lo hanno già fatto.

In Libia il califfato ha trovato un terreno fertile. Dopo le sollevazioni della Primavera araba del 2011 – che portarono alla caduta della dittatura di Gheddafi anche per i bombardamenti francesi, inglesi ed americani – la Libia non è riuscita a completare la transizione verso la normalità. Degli scontri fra i due governi libici (uno riconosciuto internazionalmente, laico, con sede a Tobruk e protetto dall’Egitto, l’altro islamista, dominato dalla Fratellanza Musulmana, con sede a Tripoli e protetto dalla Turchia) ha approfittato il califfato che si è collegato col secondo gruppo ed è penetrato prima a Derna e poi a Sirte. L’Isis sta ora avanzando nell’est libico minacciando Harawa, Nufaliya e Bin Jawa con l’evidente obiettivo di raggiungere l’area di Ajdabiya – la chiave per i campi della “mezzaluna petrolifera” a metà strada tra Bengasi e Sirte – ed assumere il controllo delle risorse energetiche del Paese.

Ci si chiede che conseguenze potrà subire il nostro Paese.

Come ha ricordato l’ex ministro della Difesa Arturo Parisi: “L’Italia non è in guerra ma è dentro una guerra. Per essere in guerra bisogna almeno avere una visione comune del nemico e di come combatterlo”. È ormai un po’ ipocrita dire che il nostro Paese non si impegna militarmente e sperare per questo che non diventi un bersaglio. Alla faccia dell’Art. 11 della Costituzione, i tornado italiani partono dal Kuwait per illuminare i bersagli che poi vengono colpiti da aerei di altre nazionalità. Volendo definire una data, l’Italia è entrata in guerra con l’invio ai Peshmerga in Kurdistan delle armi depositate alla Maddalena nell’agosto del 2014.

Ma, mentre il nostro Paese non ha interessi in Siria, ha interessi critici proprio in Libia. Qui la produzione petrolifera, secondo il World Oil and Gas Review appena uscito a cura di Eni, è precipitata al livello della guerra del 2011 a soli 0,5 mb/d (milioni di barili al giorno) rispetto agli 1,6-1,7 mb/d di tutto il quinquennio 2005-2010.

Secondo alcuni media, il nostro governo per ora si è limitato a inviare tra Zuwara e Sabratha, nella zona fra Tripoli e il confine tunisino, uomini delle forze speciali a difesa delle infrastrutture petrolifere.

Ci sono ancora due fattori che possono diventare critici nell’evoluzione della situazione.

Il primo è il prezzo del barile ed il comportamento dell’OPEC: la riunione del 4 dicembre si è conclusa con un comunicato sconcertante in cui si afferma solo che i suoi membri «nei prossimi mesi dovrebbero continuare a monitorare da vicino gli sviluppi sul mercato petrolifero». Per la prima volta nei 5 anni di vita dell’organizzazione, nessun taglio, né aumento, né conferma del tetto di produzione, che non viene nemmeno nominato. Se ne riparlerà solo nella prossima riunione, fissata per il 2 giugno. Intanto, gli stoccaggi di petrolio (3 miliardi di barili solo nell’OCSE) sono già pieni al 85-90% e si stima che verso il secondo trimestre 2016 si riempiranno del tutto. Non sorprende che le quotazioni del barile ora siano crollate ai minimi del 2009.

L’ultimo fattore è la Cina. Questo Paese, grandissimo consumatore di energia nonostante il rallentamento del suo tasso di sviluppo a “solo” il 7%, ha forti interessi in tutta l’Africa e in particolare nella zona del Maghreb. Per ora è rimasto pazientemente alla finestra, ma ci si chiede quanto durerà ancora il silenzio del dragone.

La Libia ha una importanza strategica non solo per l’Italia, visto che è al nono posto fra i Paesi più ricchi di petrolio con riserve stimate in 48,363 milioni di barili, cui si aggiungono 1,505 miliardi di metri cubi di gas. È chiaro che chi scenderà in campo per cacciare il califfato dalla Libia lo farà per difendere i propri ideali, il proprio Paese ed i propri interessi, non certamente per difendere i nostri.


Estratto di un’analisi più articolata che si può leggere sul sito di Mit Technology Review

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