L’Arabia Saudita ha deciso di interrompere le relazioni diplomatiche con l’Iran e domenica ha ordinato alle feluche iraniane di lasciare il Paese entro 48 ore: il ministro degli Esteri saudita Adel al Jubeir ha detto che «l’Arabia Saudita non tollererà oltre qualsiasi legame con un Paese che sostiene il terrorismo e il settarismo». Nelle ultime ore, anche Sudan e Bahrein hanno preso la stessa decisione. È l’ultimo passaggio delle tensioni che si sono sviluppate tra i due Paesi dopo che sabato i sauditi avevano annunciato di aver eseguito la condanna a morte su quattro sciiti, tra cui uno dei leader delle proteste delle minoranze nel regno, il chierico Nimr al Nimr, personalità molto famosa a cavallo dell’universo sciita globale.
COSA C’È DIETRO
Si tratta della più grande crisi nelle relazioni tra le due principali potenze regionali, quella sunnita saudita e quella sciita iraniana, dalla fine degli anni Ottanta. Nella giornata di domenica si sono susseguite dichiarazioni velenose e proteste di piazza che hanno ulteriormente polarizzato la divisione settaria che spacca da secoli la cultura islamica, e che ultimamente è stata rinfiammata dai cosiddetti “conflitti proxy” in Siria come in Yemen. Un esempio: l’uccisione del leader di Jaish al Islam, Zahran Alloush, milizia integralista sunnita che combatte in Siria sostenuta dall’Arabia Saudita e rivale del regime sciita di Bashar al Assad, avvenuta per mano dell’esercito siriano, che ormai significa “Guardiani iraniani e raid russi”: e non è detto che dietro alla decisione saudita di attraversare la linea rossa dell’uccisione di al Nimr, non ci sia anche un gesto di vendetta per la morte di Alloush.
Oltre alla confessione. Ma se la divisione confessionale è sicuramente lo scenario, ci sono anche diversi altri argomenti che fanno da attori in questa situazione. A cominciare dalla volontà che accomuna Iran e Arabia Saudita: avere il controllo geopolitico della regione mediorientale. Con i sauditi che si trovano anche a dover nutrire di narrazione la neo nata alleanza militare di cui si sono fatti promotori: un asse che raccoglie Paesi a maggioranza sunnita, definito da alcuni la “Nato islamica”, e che è stato letto da alcuni esperti come un tentativo di fronteggiare direttamente le mire geopolitiche iraniane, e contemporaneamente come la volontà di affrancarsi dalla politica occidentale in Medio Oriente, ora rappresentata dall’intesa nucleare voluta da Barack Obama e chiusa dal gruppo “5+1” con Teheran tra le polemiche dei sauditi, in primis, e dei Paesi del Golfo.
La crisi saudita. Secondo il quotidiano israeliano Haaretz, l’esecuzione dell’imam sciita non è stata casualmente abbinata all’uccisione contemporanea di militanti qaedisti: il messaggio è di accomunare tutti sotto l’etichetta del terrorismo e una dichiarazione di guerra alle eventuali opposizione (o rivolte) interne. Una mossa che però in molti hanno considerato “debole”, segno che la dinastia dei Saud è in difficoltà. La crisi dinastica è da tempo “chiacchierata”, anche a causa della stella emergente del regno: il ministro della Difesa Mohammed bin Salman, secondo in linea di successione e uomo forte nei rapporti diplomatici. Di certo Riad fatica a tenere insieme il regno, soprattutto nelle zone della costa orientale, dove risiedono gli sciiti, sempre più motivati dalle spinte iraniane. E tra le questioni che mettono in difficoltà la monarchia saudita, c’è indubbiamente l’aspetto economico. L’Arabia chiude il 2015 con un deficit di bilancio senza precedenti, circa 97.9 miliardi di dollari, a ciò si lega una previsione di tagli della spesa pubblica per circa 135 miliardi di dollari. Lo storico scozzese Niall Ferguson in un’intervista al Corriere della Sera, ha spiegato che la situazione infatti non riguarda semplicemente i minimi di 37 dollari al barile raggiunti dal Brent venerdì scorso: «Conta di più l’impatto che la scivolata delle quotazioni sta avendo sulla stabilità sociale in Arabia Saudita. Il crollo delle entrate da petrolio ha fatto esplodere il deficit di bilancio al 15% del Pil, il Regno si sta indebitando ogni giorno di più con l’estero per continuare a funzionare, e molti fondi speculativi prevedono che nel 2016 il rial saudita dovrà abbandonare la parità con il dollaro e svalutare».
IL PETROLIO
La politica adottata sul petrolio da Riad potrebbe subire scossoni e cambiamenti dalla crisi innescata con l’Iran: l’Arabia, analizza Quartz, sta pagando «un enorme prezzo» per la guerra allo shale oil, soprattutto americano. Difficile che i sauditi cambino la loro linea però, anche soltanto per tenere il punto, e continueranno a tenere invariato l’alto ritmo di produzione e la conseguente diminuzione dei prezzi. Un gioco rischioso per un Paese che ha il 73 per cento delle entrate legate al greggio: entrate che secondo le ultime stime dello stesso ministero delle Finanze saudita rischierebbero un calo del 70 per cento.
La previsione del Fmi. Ad ingrigire lo scenario saudita, c’è una stima del Fondo monetario internazionale: gli economisti dell’Fmi prevedono che l’atteso aumento dell’offerta di petrolio da parte dell’Iran dovrebbe mettere sotto pressione i prezzi globali, di un valore compreso tra 5 e 15 dollari al barile, così che «il Pil globale aumenterebbe di 0.3 punti percentuali», scrive Gabriele Moccia sul Foglio. Teheran, che ha fissato il prezzo a 35 dollari nelle previsioni di bilancio del 2016, ha «target produttivi ambiziosi», spiega Moccia, e cercherà di allacciare «rapporti commerciali con una fitta rete di Paesi», i quali saranno resi possibili dal sollevamento delle sanzioni che dovrebbe gradualmente cominciare già da gennaio, come contropartita dell’accordo nucleare. La Cina ha già annunciato che riprenderà le forniture dall’Iran con flussi “pre sanzioni”, e l’India sta per decidere definitivamente sulla stessa linea. Anche la Corea del Sud ha dato il via libera all’aumento della quota di greggio importata dall’Iran, e questo oltre che stabilizzare il panorama energetico asiatico, è anche un segnale agli Stati Uniti. I coreani sono il principale acquirente di armamenti americani, ma hanno scelto l’Iran per l’energia anche a fronte del calo degli investimenti americani nel settore (con il conseguente rallentamento del settore manifatturiero annunciato oggi dal Tesoro statunitense): nel 2016 dovrebbero ripartire i fondi investiti sull’energia, e la decisione di Seul potrebbe segnare la rotta verso cui mirare per gli export futuri, portando Washington a disinteressarsi sempre di più dalle dinamiche mediorientali (anche non solo economiche) e saudite.
Le ostilità nell’Opec. La strategia saudita sulla produzione di petrolio ha destabilizzato l’Opec, l’Organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio, creando diversi malumori. La Russia, per bocca del suo presidente Vladimir Putin (sempre pronto a sfruttare l’opportunità di qualche crisi per accreditarsi nel panorama internazionale) s’è detta pronta a mediare tra i due Stati confessionali, ma Mosca nel corso degli ultimi anni ha creato una contro-strategia interna all’Opec, servendosi di un asse composto da Iran e Venezuela per contrastare i sauditi. Anche ultimamente il ministro dell’Energia russo, Alexander Novak, è tornato ad accusare Riad di aver destabilizzato il mercato con l’aumento della produzione di 1,5 milioni di barili al giorno, decisione presa, secondo il russo, senza consultare nessuno, nemmeno gli altri membri dell’Opec. La Russia aveva agganciato il budget statale per il 2015 ad un prezzo di vendita del greggio previsto di 105 dollari al barile: gli scenari di stress elaborati dalla Banca centrale russa annunciati da Reuters ad ottobre dello 2014, davano il valore di 60 dollari come uno scenario improbabile, quanto catastrofico. Ora, con il barile sotto i 40 dollari, Mosca vuole cercare di invertire la tendenza, e per farlo si mette in ostilità ai sauditi (ostilità per altro ricambiata, viste le posizioni distanti anni luce sul conflitto per procura in Siria, dove i russi appoggiano Assad che i sauditi considerano un criminale di guerra). Il Wall Street Journal scrive che iraniani e russi hanno intenzione di destabilizzare la monarchia saudita, e la domanda che il giornale americano si pone è fino a che punto Obama, nell’ultimo anno del suo mandato e focalizzato su altre questioni, sarà pronto ad opporsi. Poco, forse, è la risposta implicita del WSJ. D’altronde, scrive Federico Rampini su Repubblica, «da anni l’America non importa più neanche una goccia di petrolio dal Medio Oriente» e «il prezzo che paga per mantenere in quell’area una vacillante egemonia, e due flotte (la Quinta, nel Golfo, la Sesta nel Mediterraneo, ndr), comincia a sembrare eccessivo ad una parte della classe dirigente Usa».
GUERRE E PREVISIONI
Bloomberg prevede che nel breve termine il prezzo del barile potrebbe aumentare di qualche dollaro, ma senza una guerra nel lungo termine lo scenario resta immutato. Nel 2012 il gruppo di ricerca sulle commodity della banca d’affari Goldman Sachs, aveva fatto notare che l’Arabia Saudita stava accumulando grosse quantità di petrolio: circostanza inusuale se si considera che si viveva un periodo di prezzi alti e se si abbinava al fatto che l’Iran, bloccato dalle sanzioni, si trovava costretto a stoccare gran parte della quantità di greggio prodotta all’interno di varie petroliere ormeggiate a poche miglia dalle coste. Izabella Kaminska, analista del Financial Times, spiegava che dietro all’accumulo saudita c’era una lettura di Riad la cui intelligence prevedeva che nel breve periodo ci sarebbero stati squilibri in tutto il Medio Oriente (erano i tempi in cui anche i Saud subivano i colpi delle primavere arabe e dei malcontenti intenti, soprattutto tra gli sciiti: al Nimr fu arrestato in quell’anno), che sarebbero culminati con una guerra. Israele avrebbe colpito le centrali atomiche iraniane, e questo avrebbe creato scossoni nel mercato del petrolio (Teheran diceva che il prezzo al barile sarebbe schizzato a 200 dollari). L’attacco, seppur pianificato, non c’è stato: ma la volontà ostinata di Riad di tenere basso il prezzo del greggio, potrebbe adesso legarsi anche a scenari più complicati. D’altronde, l’esecuzione di Nimr è stata definita come un “missile virtuale” lanciato dai sauditi contro l’Iran. Quello che il futuro prevede, per gli esperti, non è una guerra aperta, poco conveniente per entrambi i Paesi, ma anni di scontri clandestini, affidati ai servizi segreti e a milizie amiche: entità attraverso cui si possono negare ogni responsabilità, affidando il tutto anche alle complicazioni legate al ruolo dello Stato islamico.