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Isis, luci (e ombre) della nuova strategia Usa contro il Califfato

Mercoledì scorso in una press conference il capo del Pentagono Ashton Carter (nella foto) ha annunciato quella che da un anno a questa parte sembra la cosa più simile ad una strategia contro lo Stato islamico. Il 2016 sarà l’anno in cui la Coalizione guidata dagli americani lancerà gli assalti alle roccaforti di Mosul e Raqqa, rispettivamente la capitale irachena e siriana dell’Isis, ha detto. Un piano ambizioso.

Secondo gli esperti militari, gli annunci di Carter spostano il conflitto contro lo Stato islamico su un livello più tradizionale, una guerra classica, fatta di manovre e tattiche dirette verso le aree forti del Califfato. L’Amministrazione sminuisce la questione, ma la realtà in progetto indica un cambiamento: le forze della Coalizione si dirigeranno verso le roccaforti e destabilizzeranno l’Isis lungo lo scheletro centrale, cercando di tagliare le linee di collegamento tra le due capitali. A Mosul, secondo i piani, attaccheranno da sud l’esercito iracheno e da nord i Peshmerga curdi; a Raqqa l’azione sarà sostenuta dalle milizie appoggiate dagli Stati Uniti, che ovviamente si occuperanno della copertura aree di tutte le manovre; inoltre la Turchia avrà il compito di isolare l’Isis da nord lungo il confine, mentre le forze irachene saliranno anche dall’Anbar verso la linea di separazione con la Siria, così Raqqa sarà accerchiata.

Carter ha anche detto che a supporto di questo patchwork (pericoloso) di forze locali (spesso con agende diverse e contrastanti) in futuro ci saranno operazioni sul campo delle forze speciali, qualcosa di simile al “secretive raiding” visto in Iraq tra il 2003 e il 2011: missioni puntuali, dirette su obiettivi precisi, magari contro qualche figura preminente dell’organizzazione del Califfo. Circostanza ripetuta in un op-ed pubblicato da Politico, in cui il segretario alla Difesa americano ha fatto il punto sull’incontro di venerdì che si è svolto a Parigi alla presenza dei ministri della Difesa di Francia, Australia, Germania, Italia, Paesi Bassi e Gran Bretagna, quelli che insieme all’America Carter definisci i Paesi che stanno facendo di più nella lotta al Califfato.

Così in teoria: in pratica, sul campo, i problemi sono già grossi.

FINORA CI SONO STATI PROBLEMI

Esattamente una settimana prima di quando Carter annunciava il nuovo piano, il colonnello Steven Warren, portavoce del Pentagono, spiegava alla stampa che lo Stato islamico aveva a disposizione dai venti ai trentamila combattenti. Ora non serve l’arguzia dei più stimati commentari anti Obama per comprendere che c’è qualcosa che non va, visto che si tratta della stessa stima diffusa nel 2014 dalla Cia. Soprattutto in una fase in cui la missione è diventata «distruggere» il Califfato colpendolo «come mai prima», parole del presidente di dicembre 2015. I curdi dell’YPG, che combattono supportati dagli Usa in Siria, dicono di aver ucciso seimila miliziani dell’Isis, mentre spifferate dal Pentagono parlavano ad ottobre di circa ventimila morti tra i combattenti baghdadisti dall’inizio dei bombardamenti. Qui è ancora più facile il ragionamento: venti più sei (mila) è un numero molto vicino alle stime iniziali fatte dalla Cia, ma come mai Warren dice che ce ne sono ancora altrettanti (e pure di più)? Uno dei primi obiettivi che la Coalizione si era preposta, era bloccare l’immenso flusso di foreign fighter, i combattenti che arrivano dall’estero per foraggiare le linee armate del Califfo, e in buona parte si considerava il pezzo riuscito dell’intera attività “anti Isis”. Ma allora, che cosa non ha funzionato nella vecchia strategia di degradamento della minaccia, se la minaccia è rimasta uguale a due anni fa (quando si è creata)? O c’è stata una sottostima iniziale, o c’è un’esagerazione per giustificare uno shift strategico adesso, oppure continuano ad arrivare combattenti: un’aliquota per ognuna della ipotesi è la risposta più probabile, e questo perché il 2015 è stato davvero un anno duro per lo Stato islamico, che ha perso molti uomini a Kobane, sul Sinjar e infine a Ramadi.

RIPRENDERE MOSUL (ANCORA)

Durante la conferenza stampa di Carter, è arrivato anche l’annuncio che duecento uomini della 101st Divisione aviotrasportata lasceranno la base di Fort Campbell in Kentucky, da dove Carter ha parlato ai giornalisti, per andare in Iraq. Sono le “Screming Eagles”, le aquile urlanti, che sotto il comando del generale David Petraeus presero Mosul ai tempi della guerra d’Iraq: dettaglio che dà peso alle dichiarazioni di Carter.

Riprendere Mosul dal controllo del Califfato è una delle operazioni più importanti e rischiose di tutta la missione “anti Isis”. La città si trova al nord, prossima al confine con il Kurdistan, ed ospita due milioni di persone: al contrario di altre situazioni, i mosulawi non sono fuggiti dalle loro abitazioni in massa, e i residenti sono tutti ancora nelle loro case. È un dato importante, perché fa comprendere quanto la situazione richieda precisione e cura nelle operazioni militari per evitare stragi di civili, complicando il tutto. Come se non bastasse già: l’Isis è molto forte a Mosul, e nonostante quelle aree siano finite con costanza sotto i raid aerei della Coalizione, non è stato degradato, anzi al momento si stima che nella zona siano presenti tra i 10mila e i 15mila soldati del Califfato. Lo Stato islamico si è arroccato anche sotto i colpi della campagna di isolamento prodotta dai bombardamenti: un processo lungo un anno (dal giugno 2014, quando fu conquistata e quando gli americani promisero di aiutare Baghdad a riconquistarla) in attesa di una resa dei conti epica. Gli uomini di Abu Bakr al Baghdadi hanno scavato delle trincee con i bulldozer tutto intorno alla città, hanno eretto un muro di cinta, e pare che abbiano creato anche una rete di tunnel (simile a quella responsabile del grosso dei guai militari israeliani a Gaza). I soldati della 101st ricorderanno bene che Mosul fu uno dei pochi luoghi dell’Iraq sunnita a non inclinarsi al Sunni Awekening, il fenomeno del Risveglio escogitato da Petraeus negli anni dell’occupazione americana come carta per sollevare i sunniti iracheni contro lo Stato islamico d’Iraq, o al Qaeda in Iraq, il gruppo guidato da Abu Musaba al Zarkawi, che è stato il precursore dell’attuale Stato islamico.

Ora la paura è che l’annuncio di Carter di mercoledì scorso, passi come quelle dichiarazioni uscite dal Comando Centrale americano a febbraio 2015, che anticipavano (in un’operazione mediatica senza precedenti, anche per stramberia) che la campagna militare per riprendere Mosul sarebbe partita da lì a pochi mesi, «in primavera», ma ancora qui stiamo.

IL METODO RAMADI

Senza una rivolta interna, appare abbastanza difficile trovare un numero di soldati adeguati e affidabili da lanciare alla riconquista della città. Anche perché se il modello da seguire è Ramadi, la capitale dell’Anbar ripresa ai baghdadisti poche settimane fa, allora la strategia va rivista. Ramadi è una città quattro volte più piccola di Mosul, dove al momento dell’offensiva finale lanciata a fine dicembre 2015 erano rimasti pochissimi abitanti civili. Le operazioni di riconquista, hanno visto impegnati gli aerei della Coalizione e le forze di terra irachene, con distinguo: un Situation Report di Foreign Policy ha spiegato che a combattere a terra c’erano non più di 4-500 uomini dell’unità d’élite dell’esercito di Baghdad, nota come la Divisione Dorata, l’unica militarmente “potabile” dell’intere forze armate dell’Iraq; utilizzata al limite massimo di sopportazione, secondo i capi dell’unità intervistati dal Wall Street Journal, anche per tenere fuori dalla cerchia cittadina le milizie sciite che aiutano regolarmente l’esercito (sciita), la cui presenza sarebbe stata interpretata negativamente dai sunniti dell’Anbar (anche perché ne conoscono bene i rudi metodi settari). Lo sforzo di questi uomini è stato coadiuvato da decine e decine di attacchi aerei americani, che hanno trovato campo libero nella città disabitata. Di più: Ramadi è stata lasciata in macerie, rasa al suolo, per i bombardamenti, per la guerra, e per le azioni interne dei miliziani dell’Isis, che hanno infestato la città di trappole esplosive così da rendere la riconquista una missione infernale. E pensare che i baghdadisti erano rimasti in circa 300, un numero notevolmente inferiore alle migliaia stimate a Mosul.

Una nota: a Ramadi comunque ancora si combatte, perché lo Stato islamico difficilmente mollerà la presa sulla capitale della provincia sunnita. Sarebbe una resa nella narrativa (e nella contro narrativa) abbandonare i sunniti nelle mani di infedeli e apostati sciiti. Una decina di giorni dopo l’annunciata riconquista, un comunicato del Pentagono diceva che gli aerei americani «nel giro delle ultime ventiquattr’ore hanno colpito sedici postazioni di combattimento, undici arsenali per fabbricare bombe, tre aree di manovra, e numerosi altri posti di interesse militare occupate dallo Stato islamico nell’area di  Ramadi». Cioè, si combatte ancora e parecchio.

FORZE SPECIALI UNITEVI

Se Mosul è messa così, dopo che Washington ha sempre considerato la battaglia contro l’Isis “Iraq first” (ma ora cambierà, vista la focalizzazione anche su Raqqa), figurarsi Raqqa, dove non c’è nemmeno possibilità di coordinarsi con un esercito vero (ammesso che quello iracheno lo sia, esclusa la Divisione Dorata) sul campo, dato che in Siria ci sono i governativi di Bashar al-Assad, ideologicamente nemici (brutali e spietati assassini del loro stesso popolo) e riqualificati in parte sull’altare del realismo politico del “nemico comune”, l’Isis. Per scendere su Raqqa, il Pentagono ha pensato di affidarsi ad una formazione turbolenta di ribelli curdi dell’YPG e di milizie arabe e turcomanne, appoggiate da vicino da due team di forze speciali americane che finora contano solo una cinquantina unità (per loro si fa sempre più concreta la possibilità di un appoggio a terra, si parla del campo volo di Rmeilan da utilizzare come base back up). Questi combattenti, però, è chiaro a tutti che da soli non riusciranno mai a riconquistare la capitale siriana dello Stato islamico: in molti ormai sostengono che soprattutto in Siria la Coalizione americana debba coordinarsi e unirsi alle forze russe presenti sul terreno con il beneplacito di Assad.

Se l’intesa ci sarà, si porterà dietro una serie di problemi. Un esempio: le aree del nord siriano dove si trova Raqqa, sono prossime al confine turco, e Ankara le ritiene affar proprio; sarà difficile pensare ad una qualche coalizione che coinvolga gli americani alleati dei turchi, i russi alleati di Assad odiato dai turchi e ai minimi storici con Ankara, i ribelli turcomanni di cui la Turchia difende la paternità ma che sono continuamente presi di mira dai raid aerei di Mosca, le milizie dell’YPG che sono alleate americane ma anche del PKK curdo-turco contro cui Recep Tayyip Erdogan ha lanciato una campagna militare senza precedenti.

ASPETTI POLITICI

Il metodo di battaglia visto a Ramadi e che vedremo a Raqqa e Mosul si chiama in gergo tecnico Close Air Support (CAS), cioè truppe di terra che si muovono con un supporto aereo immediato (nel senso di ravvicinato e di risposta operativa). Un primo segnale che questa sarà la via di combattimento scelta per il futuro è la decisione di rinviare di un ulteriore anno il pensionamento degli A-10 Warthog, aerei nati proprio per il CAS, che il Pentagono ha ultimamente spostato nelle basi che utilizza per coprire il quadrante siro-iracheno.

Ma le truppe da sostenere “da vicino” non saranno americane (almeno non è previsto per ora, se non nel caso di puntuali operazioni speciali). E siccome quell’insieme di partner è carente sia numericamente che politicamente, come si è detto, allora, riporta il Washington Post, gli Stati Uniti hanno chiesto agli alleati tutti, con prevalente accento su «quelli regionali» (non vengono fatti nomi, ma si tratta ovviamente di Giordania e Stati del Golfo) di mettere a disposizione le proprie unità speciali per partecipare alle operazioni.

Il vero nodo, però, non sarà il difficilissimo obiettivo militare che la Casa Bianca ha calendarizzato (come un’altra delle legacy che Barack Obama vuole segnare), ma l’aspetto politico di queste eventuali riconquiste. Una volta invasa Mosul dall’esercito iracheno, chi comanderà i tanti sunniti presenti e le varie altre minoranze di cui la città è ricca? Saranno in grado le truppe di Baghdad, spesso macchiate di settarismo, di gestire il potere in città? E inoltre: i curdi rivendicheranno propri diritti territoriali? E ancora una volta, se Mosul, che ha intorno un contesto sociopolitico relativamente stabile, è uno scenario complicato, Raqqa immersa nella guerra civile siriana sarà un problema amplificato.


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