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Perché il rientro dell’Iran cambia gli equilibri energetici

C’è stato l’Implementation Day, il giorno in cui sono entrati finalmente in vigore gli accordi fra l’Iran e la coalizione detta dei P5+1: Usa, Russia, Cina, Regno Unito e Francia.

Dopo oltre dieci anni di accuse reciproche e occasioni perdute, è stata trovata una soluzione condivisa. Questo è solo l’inizio di un processo che richiederà ancora anni per svilupparsi completamente, per ricostruire la fiducia.

Si rincorrono dichiarazioni e stime contraddittorie sulla reale entità degli assets e dei crediti iraniani fino ad ora immobilizzati all’estero. E in assenza di trasparenza su questi dati non è facile capire quanto il ritorno sul mercato di questi patrimoni possa giocare un ruolo decisivo nel rilancio economico del Paese. D’altra parte, pare dubbio che la sola eliminazione delle sanzioni porti a un miglioramento dei problemi strutturali dell’economia iraniana. Analisti del Fondo Monetario Internazionale sostengono che la crisi non è stata causata dalle sanzioni ma che queste ultime abbiano peggiorato una situazione economica già instabile.

Quando è iniziato l’isolamento internazionale, l’Iran è stato spinto fuori dal mercato globale del petrolio dove rappresentava il secondo esportatore dell’OPEC dopo l’Arabia Saudita.

La prima petroliera iraniana è partita per l’Asia con 2 milioni di barili ed entro quest’anno il livello di produzione dovrebbe risalire ai livelli originali con l’obiettivo di 2.4 milioni di barili al giorno.

Questo ritorno sul mercato energetico può causare ulteriori spinte al ribasso del prezzo del petrolio. Il crollo del barile dai 110$ nel 2014 a meno di 30$ in questi giorni, accaduto quando ancora non erano stati raggiunti successi incoraggianti nei negoziati con il regime di Hassan Rouhani, è dovuto a due fattori.

Il primo è l’azione OPEC che inizialmente ha mirato a tagliare fuori lo Shale Oil statunitense dal mercato.

Il secondo fattore è che, a questi livelli, le compagnie energetiche tendono a limitare le vendite “ai saldi”, aumentando gli stoccaggi per non deprimere ulteriormente i prezzi.

Purtroppo, però, gli stoccaggi mondiali di petrolio (3 miliardi di barili solo nell’area OCSE) risultano già saturi per oltre l’ 85-90% e quando – prevedibilmente a metà di questo stesso anno – raggiungeranno i limiti della capienza, le uniche due alternative consisteranno nell’immetterlo sul mercato o nel fermare la produzione; in entrambi i casi con conseguenze potenzialmente molto rischiose.

Era per questo prevedibile che l’Arabia Saudita, che già sta attraversando una profonda crisi interna, avrebbe agito per tentare di bloccare, o almeno di rallentare, il rientro iraniano.

Non è la prima volta che Riad adotta la politica di abbassare i prezzi per espellere dal mercato i concorrenti. Lo ha già  fatto nel ’74, quando ha spinto l’OPEC a diminuire le esportazioni solo del 5% provocando la quadruplicazione del prezzo del petrolio (da 3$ a 12$ al barile: altri tempi…), poi anche nel ’85, nel ’88 e soprattutto nel ’98 (quella volta proprio in occasione del rientro dell’Iraq del dopo Saddam).

In quest’ottica va letta l’esplosione della nuova crisi diplomatica fra Arabia Saudita e Iran, uno a maggioranza sunnita e l’altro a maggioranza sciita, provocato dall’esecuzione dell’Iman sciita Nimr Al Nimr per mano dei sauditi. Infatti l’Arabia Saudita, pur con un’economia in crisi e un deficit pari al 15% del PIL, possiede riserve stimate per 250 miliardi di barili – pari a 100 anni di produzione agli attuali ritmi – e può quindi permettersi prezzi anche più bassi di quelli previsti da Goldman Sachs (che stima si arriverà a 20$ al barile) perché ha costi di estrazione molto bassi: attorno ai 2$ al barile. Ora però ha un forte interesse a non perdere quote di mercato in favore dell’Iran ma anche di altri concorrenti. Per tutti, la Russia ha portato la sua produzione a 10.7 milioni di barili al giorno superando i 10.3 dell’Arabia Saudita stessa.

Finché oltre l’80% dei consumi energetici mondiali sarà basato sugli idrocarburi, il petrolio continuerà ad avere un’importanza decisiva per gli equilibri mondiali.

L’Italia fino ad ora ha tentato di costruire rapporti economici e finanziari in entrambe le direzioni, sia con gli arabi che con gli iraniani (il presidente Rouhani sarà a Roma già il 25 gennaio) e non è nell’interesse del nostro Paese che l’escalation fra Riad e Teheran precipiti. Non possiamo dimenticare che Eni da dieci anni attende lo sblocco della produzione nei giacimenti South Pars 4 & 5, nell’offshore del Golfo Persico, e Darquain, nella provincia di Khouzestan. In tutti questi casi è operatore al 60% per conto della National Iranian Oil Company ed il 40% è riservato nel primo caso a Petropars (20%) e Naftiran Intertrade Co. (20%) mentre nel secondo caso solo a quest’ultima.

Analisi pubblicata sul Mit Technology Review



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