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Parliamo del Piano Regolatore di Roma?

Terzo articolo di una serie di approfondimenti. Il primo articolo si può leggere qui, il secondo qui 

La verità nuda e cruda è disarmante. La Roma post-fascista non ha mai avuto un piano regolatore. Ha avuto tante esercitazioni calligrafiche. Ipotesi e disegni. Proposte di buone qualità. Tutte rimaste sulla carta, mentre lo sviluppo effettivo della Capitale avveniva in forma caotica all’insegna della più sfrenata sregolatezza. Situazione venutasi a creare fin dal 1962 con il relativo piano regolatore, le cui contraddizioni condizioneranno quello più recente (2008) ancora in vigore. Quell’elaborazione era durata ben otto anni, tra rimaneggiamenti, rivalità tra le diverse scuole di pensiero e le alterne vicende della congiuntura politica capitolina. Il parto definitivo avvenne con la prima giunta di centro sinistra, guidata dal sindaco Glauco della Porta. E la speranza riformista che l’ingresso dei socialisti nell’area di governo aveva alimentato.

La sua parola d’ordine era: decongestionare il centro storico. Per ottenere questo risultato era necessario costruire il Sistema Direzionale Orientale (SDO): un asse attrezzato che dalla Via Salaria doveva giungere fino all’Eur, per unire il Nord ed il Sud della città. A metà strada tra le mura aureliane e l’attuale Grande raccordo anulare, tutto immerso nel quadrante est: quello più popoloso. Dove, ancora oggi, vive circa il 53 per cento dei romani. Era, infatti, uno SDO e non una semplice arteria per il traffico. Intorno a quest’asse doveva sorgere il centro direzionale (sia pubblico che privato) della Capitale. Ricollocandovi soprattutto i Ministeri, dispersi disordinatamente nei vari quadranti della città. Consentendo ai relativi dipendenti, fortemente presenti in quei quartieri, di raggiungere il posto di lavoro, evitando quelle transumanze quotidiane che rendono impossibile il traffico cittadino.

Disegno razionale, quindi. Nuovi quartieri sarebbero dovuti sorgere dopo l’Eur. Roma che si apriva verso il mare, secondo un vecchio slogan dell’epoca fascista. Da qui l’orticaria di molti vecchi dirigenti comunisti. Le previsioni di crescita residenziale per 2 milioni di abitanti erano ripartite in prevalenza (40 per cento) in quel quadrante. Contro il 30 per cento ad est, ed il restante 30 per cento diviso in parti uguali tra il nord e l’ovest. Proposta destinata a sollevare più di un entusiasmo. La stessa Camera dei deputati costituì una Commissione Consultiva Urbanistica per sondare la possibilità di trasferire all’Eur la “cittadella della politica”, dopo aver abbandonato le sedi storiche del Parlamento italiano.

Purtroppo quell’ipotesi rimase sulla carta. L’unico risultato tangibile fu la nascita di “Spinaceto”: il quartiere collocato tra la Pontina e la Cristoforo Colombo. Costruito secondo moderne concezioni urbanistiche, sull’uso dello spazio interno, risultò per molti anni incompiuto. I servizi promessi non furono mai attivati. E ben presto assunse la triste caratteristica di un quartiere dormitorio, poco servito dai mezzi pubblici e con la metropolitana collocata ben oltre “l’ultimo miglio”.

La morte del piano regolatore del 1962 fu causata dalla lentezza e dall’inefficienza della macchina burocratica. Un Comune fin troppo debole ed un Sindaco senza poteri effettivi non avevano le munizioni sufficienti per competere con il dinamismo del mercato. La città dilagò, infatti, a macchia d’olio mangiandosi lo spazio indispensabile per realizzare le infrastrutture promesse. D’altro canto l’Amministrazione centrale dello Stato non aveva alcuna voglia di abbandonare sedi prestigiose per trasferirsi in periferia. E così, lentamente, si spense ogni vocazione riformista. Lasciando Roma in balia dei vari “furbetti” – esistevano anche allora – “del quartierino”.

Quel fallimento ha prodotto nell’architettura complessiva della città di Roma danni irreversibili. Il nuovo piano regolatore – quello del 2008 – somiglia, infatti, ad una dichiarazione di resa. Concezione minimalista e tante parole. Blocco all’espansione urbana, recupero delle aree interne, passaggio da un “organismo monolitico” ad un “sistema policentrico” – come si legge nella relazione al Piano regolatore – basato sui 18 municipi che diventano altrettante “città di Roma”. Esaltazione dei vincoli ambientali. Un vagheggiato “nuovo sistema delle infrastrutture per la mobilità”. Quasi a far pensare alla Los Angeles americana, ma senza quel contorno di grandi autostrade che ne costituiscono l’ossatura funzionale. Un nuovo grande affresco che sarebbe difficile non condividere. Se fosse anche sostenibile.

Il limite più serio è quello della mancanza delle necessarie risorse. Sia per realizzare le infrastrutture di servizio che per sostenere le “compensazioni”. Vale a dire lo scambio tra i proprietari delle vecchie aree che rinunciano ad edificare in cambio di altri spazi nei “nuovi luoghi della centralità urbana”, che dovrebbero essere serviti da ingenti investimenti pubblici. Notazione non di poco conto per un Comune che ha alle spalle un debito di oltre 25 miliardi di euro – ne darò conto in seguito – e che, per il 2015, su una spesa complessiva di oltre 4,5 miliardi prevede di destinare solo 236 milioni agli investimenti.

Sarebbe ingeneroso attribuire tutte le colpe alle Amministrazioni più recenti. Il piano regolatore del 1962, come rilevato da molti urbanisti, aveva un’ambiguità di fondo. Che non si riferiva, tuttavia, alle sole direttrici della possibile espansione urbana. Era la sua stessa struttura concettuale a risultare inadeguata. Da un punto di vista teorico si muoveva in continuità con i precedenti piani regolatori che fin dal 1873 si erano preoccupati soprattutto di delineare le grandi vie di collegamento (dai due Lungotevere, a Via del Tritone e a Via Nazionale) lungo le quali far crescere la città, dopo aver demolito abitazioni fatiscenti. Per giungere, infine, all’apoteosi mussoliniana: Via dell’Impero, l’Augusteo, Via Zanardelli, Via del mare (oggi Via Petroselli). L’asse attrezzato non era altro che una proiezione moderna di quella stessa filosofia. Sul piano della realizzazione, invece, come abbiamo già detto, risultò un completo fallimento.

Per misurare i ritardi che questa discontinuità ha prodotto, basti pensare alla realizzazione dell’attuale tangenziale est (da Viale Castrense a Via della Pineta Sacchetti), completata solo con il cosiddetto passaggio a nord ovest, iniziato da Rutelli ma inaugurato da Veltroni. Un topolino, se paragonato al vecchio piano di Sanjust di Teulada, varato nel 1909. Fu il primo tentativo di regolare l’espansione urbana oltre le mura aureliane. L’idea era quella di costruire una circonvallazione, larga 60 metri e lunga 25 kilometri, che grosso modo corrisponde all’attuale tracciato della tangenziale est con l’integrazione della Via Olimpica. Che tuttavia non è riuscita a chiudere l’anello. Ci sono voluti, quindi, più di 100 anni per realizzare malamente parte di quel progetto. Con i risultati che sono sotto gli occhi di tutti.

(3.continua)



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