L’autoproclamatosi Stato Islamico, che a giugno 2014 era localizzato fra l’Iraq e la Siria, ora è diventato una multinazionale con circa 50 gruppi affiliati o fiancheggiatori che operano “in franchising” sotto il marchio del Califfato in 21 nazioni. Ha già dichiarato 33 provincie ufficiali in 11 di queste nazioni.
Mentre ha perduto circa un quarto dei territorio che aveva conquistato in Iraq e in Siria, ha nel frattempo stabilito una presenza internazionale sul terreno, nel cyberspazio e nell’immaginario popolare.
Nella sola Libia, Daesh ha raddoppiato la sua presenza negli ultimi 12 mesi ed ora, secondo il Pentagono, ha fra i 5000 ed i 6500 combattenti addestrati. Mentre le forze di opposizione che dovrebbero fronteggiare gli jihadisti sono definite “inaffidabili, insicure, disorganizzate e divise in aree e tribù differenti e spesso ostili fra loro”.
Il segretario di Stato Usa, John Kerry, pochi giorni fa ha avvertito che “l’ultima cosa che vorrei al mondo è un falso califfato con accesso a miliardi di dollari in profitti petroliferi”. Nonostante diversi anni di crescenti preoccupazioni americane sul destino della Libia, le risposte concrete sono state quantomeno flebili e mitigate dal miraggio dell’autosufficienza energetica quando – col petrolio a oltre 100 dollari al barile – era ancora conveniente estrarre petrolio dagli scisti in territorio americano piuttosto che garantirsene l’importazione dall’estero (se necessario con la forza).
È evidente l’imbarazzo, non solo americano, ad imbarcarsi in un’ennesima guerra in una terra musulmana; per questo motivo le diplomazie di tutto il mondo stanno facendo quanto possibile per consolidare e permettere l’insediamento del governo libico “di unità nazionale”. Ma, viste le scarse probabilità di successo di questo tentativo, si stanno già pianificando raid aerei, attacchi di commando localizzati su obiettivi strategici e addestramento di miliziani libici. Si valutano, insomma, tutte le opzioni che richiedano il minimo numero possibile di occidentali sul terreno per cercare di fare rientrare il minor numero possibile di morti.
Intanto, pochi hanno notato che il Califfato ha adottato in Libia una “politica energetica” opposta a quella già adottata in Siria e in Iraq, dove ha rimesso in produzione i pozzi e organizzato un circuito di distribuzione clandestino con la formalmente nemica Turchia. In Libia, invece, i terroristi attaccano le infrastrutture petrolifere per indebolire i due governi rivali. Per il momento, si accontenta di distruggere, perché non ha le forze e le competenze necessarie per catturare e controllare i pozzi e per raffinare e distribuire il petrolio.
Infatti, il 2015 è stato un anno terribile per l’industria petrolifera libica. La guerra civile e il consolidamento della minaccia del Califfato (che, qui come altrove, si è infiltrato approfittando della debolezza delle istituzioni) ha impedito al comparto petrolifero di mantenere il rapido recupero che aveva saputo mostrare nella seconda metà del 2014. Il 2015 è stato l’anno peggiore per la produzione energetica libica dalla guerra civile del 2011: 400mila barili al giorno (il 25% della capacità reale) e di questi è riuscita l’esportazione solo di 250mila. Il calo del prezzo del petrolio ha fatto il resto: si calcola che, nel 2015, la Banca Centrale Libica abbia incassato meno di 5 miliardi di dollari.
Un possibile recupero nel 2016 non può essere escluso a priori, ma le speranze non sono elevate. Ogni rilancio nella produzione libica – e quindi del contante a disposizione del governo di coalizione – dipende da due fattori assolutamente ovvi. Prima di tutto, proprio dalla possibilità di questo di insediarsi con il sostegno dell’Onu, di fermare la guerra civile e, quindi, anche di certificarsi come unico ente autorizzato a esportare il petrolio libico. Il secondo fattore è la capacità di contrastare l’avanzata del califfato che, partendo dai 200 km di costa sotto il suo dominio nella sola regione di Sirte, è a distanza di attacco sia dei giacimenti nel deserto che delle infrastrutture petrolifere costiere.
L’Isis non ha insidiato le risorse energetiche libiche fino a febbraio 2015, oltre otto mesi dopo il suo primo consolidamento territoriale in terra libica nella regione di Derna. Esattamente un anno fa ha iniziato una serie di attacchi sistematici sui campi petroliferi più remoti del bacino della Sirte. I terroristi hanno messo in fuga le guardie, terrorizzato o ucciso gli operai, e preso di mira gli equipaggiamenti più critici facendo saltare le sale controllo e i generatori e provocando la chiusura totale di almeno 11 di queste infrastrutture.
Nell’estate del 2015, il califfato ha concentrato i suoi sforzi su Sirte trasformandola in una roccaforte da utilizzare in caso di ritirata da altre aree. L’operazione ha funzionato così bene da portare Sirte ad essere individuata come il nuovo centro di comando di tutto il sedicente stato islamico. Solo in ottobre sono ricominciati gli attacchi sulla ricchezza petrolifera libica. Con un’auto bomba è stato colpito il più grande terminale petrolifero libico a Es Sider, anche se con danni contenuti. Gli attacchi alle infrastrutture sono proseguiti per tutto l’autunno finché, nella prima settimana del 2016, i terroristi hanno condotto tre assalti contro i terminali di Es Sider e di Ras Lanuf (che hanno una capacità teorica combinata pari a 550 mila barili al giorno anche se sono stati chiusi nel tardo 2014 a causa della guerra civile). In nessun momento di queste azioni, gli jihadisti hanno lanciato sul terreno uomini sufficienti per catturare efficacemente le infrastrutture. Invece, si sono limitati a bombardare terminali e depositi da lontano. Hanno anche lanciato suicidi con auto bomba seguiti da gruppi di incursori bene addestrati solo allo scopo di distruggere punti nevralgici per poi ritirare i commando subito dopo. Stavolta gli attacchi sono stati efficaci: 18 guardie uccise, 12 ferite e la maggior parte delle altre sono fuggite, cinque depositi a Es Sider e due a Ras Lanuf sono stati bruciati mandando in fumo 850mila barili di petrolio. Ora solo tre dei diciannove depositi di Es Sider possono essere considerati ancora operativi.
Un osservatore attento può capire molto dall’analisi di queste tattiche: l’Isis vuole distruggere la ricchezza petrolifera libica invece di trarne profitto come ha già dimostrato di saper fare in Siria e in Iraq. La prova consiste proprio nel fatto che il Califfato ha lanciato solo piccoli gruppi bene addestrati sulle infrastrutture, come a Mabruk, Dhahra, Bhai, Al-Ghani e Sarir, ma la maggior di queste (con l’eccezione delle due infrastrutture principali di Es Sider e di Ras Lanuf) erano scarsamente protette da guardie inesperte e poco motivate. Nessun attacco ha invece avuto l’evidente obiettivo di conquistare, difendere e sfruttare a proprio vantaggio una di queste infrastrutture. Scelta assennata dato il ridotto numero di combattenti addestrati che l’Isis aveva qui nel 2015 e che il Pentagono stimava allora in soli due o tremila terroristi, troppo pochi considerando l’estensione dell’area e le mire di conquista verso Est del califfato.
Il petrolio libico si trova soprattutto nelle piattaforme Eni offshore (per il momento ben difese grazie all’operazione Mare Sicuro della Marina Militare Italiana) e nel deserto lontano dal mare e dai centri urbani situati sulle coste dove l’Isis è più forte. L’unico modo per trasferire quel petrolio in volumi commerciali è con gli oleodotti fino alle raffinerie sulla costa, dove vien raffinato ed impiegato sia per usi interni che per l’esportazione. In Libia esistono solo cinque raffinerie, tutte sulla costa tranne Sarir nel sud-est. Ciascuna di queste è nel territorio controllato da una tribù differente e, per il momento, ostile al Califfato e, con l’eccezione di Sarir, è collocata lontano dai campi petroliferi che la alimentano rendendo impossibile, per una forza terroristica ancora esigua, il controllo di un intero sistema campi-oleodotto-raffineria.
Infatti, il petrolio greggio ha poco appeal commerciale se non viene portato alla raffinazione. Sono già state descritte qui le raffinerie da cortile che sono state realizzate in Siria. Ma l’intelligence non sembra ancora aver scoperto segni di questa attività in territorio libico nonostante l’evidente scarsità di carburante in vaste aree del territorio. Mentre la Libia ha una lunga storia di contrabbando di derivati petroliferi, nell’ultimo anno non sono stati scoperti episodi di traffico clandestino di idrocarburi a qualsiasi grado di raffinazione. Inoltre, mentre in Siria le operazioni petrolifere, sono tutte in aree densamente popolate e vicine fra loro, in Libia le distanze fra gli elementi chiave dell’intero network sono troppo elevate.
Tutto questo porta a una duplice conclusione. C’è ancora tempo per consolidare una forma di governo riconosciuta che ponga fine alla guerra civile e possa richiedere e sostenere l’intervento delle Nazioni Unite per cacciare i terroristi prima che il Califfato possa trarre profitto dalle infrastrutture petrolifere libiche.
Ma, al contempo, non si possono sottovalutare i danni che potrà ancora causare l’Isis ora che è di nuovo all’offensiva né si può ignorare che le ambizioni del califfato sono state fino ad ora limitate principalmente dalla scarsità di jihadisti a disposizione. Negli ultimi mesi hanno però più che raddoppiato gli effettivi in territorio libico e non si può trascurare la capacità di attrazione già dimostrata dal “franchising” del califfato sia verso i giovani islamici in tutto il mondo sia verso ciascuna delle variegate tribù sparse nell’infinito territorio libico.
Dum Romae consulitur – Mentre a Roma si discute, come scriveva Tito Livio parlando della situazione militare nordafricana del 219 a.C. – sembra che anche l’infrastruttura portuale di Zueitina, a sud di Bengasi, sia stata colpita dai terroristi che, per la prima volta, hanno attaccato via mare…