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Pakistan, la strage dei cristiani e la guerra sacrosanta ai terroristi

L’attentato di ieri a Lahore rientra nell’ormai quadro politico generale, che disegna un mondo insanguinato. La crudeltà dell’atto suicida, e il modo in cui il gruppo Jamatul Ahrar ha violentemente ucciso giovani vite innocenti, grida vendetta al cospetto di Dio, come un tempo si sarebbe detto, e non merita altri commenti.

Si tratta di un Paese, il Pakistan, noto alle cronache per essere teatro da tempo delle peggiori forme di intolleranza, il cui prezzo è pagato al solito dalle minoranze buone, ossia dai Cristiani.

L’impossibilità pratica di evitare queste follie e di tutelare gli innocenti è un tratto comune che lega questo attentato ai torbidi di Bruxelles, e inchioda noi al nostro presente. Inoltre, il quadro allarmante attesta l’imbarazzata incapacità del diritto internazionale di essere applicato solo con il richiamo alle coscienze: una tragica realtà, di cui prendere atto rapidamente.

Mentre ascoltiamo in questo lunedì dell’Angelo il Santo Padre che si commuove, non possiamo non renderci conto di quanto sia diventato un privilegio la modalità in cui in Europa continuiamo a vivere con relative certezze di pace, che vengono consumate però ogni giorno dalla polveriera incendiaria che abbiamo intorno.

È pressoché impossibile non rimanere attoniti davanti alla crudeltà che subiscono persone indifese, tanto più inermi quanto più vulnerabili. Consola sapere che Russia e Siria hanno ripreso Palmira dopo mesi di occupazione violenta dello Stato Islamico, irrispettoso del bene umano e della bellezza artistica millenaria.

La reazione non è fare una guerra santa, ma semmai comprendere che contro chi pratica crimini del genere su bambini indifesi intervenire è un dovere morale categorico. Non ci sono scuse.

Nessuno in Occidente può pensare, come sostiene Donald Trump, che sia sufficiente chiudersi in casa propria, sbattendo fuori un mondo ostile che non ci piace come se non esistesse, per aver risolto il problema. È un inganno. Men che meno può bastare che si resti paralizzati in idioti ragionamenti su un multiculturalismo fallito e fallimentare. Nessuno in Europa può pensare seriamente che basti avere valori alti di umanità e sdegnarsi con chi li nega, per aver risolto così, automaticamente, il fallimento che segna nella sofferenza il destino dei più sfortunati, preparando al contempo quello di tutti noi.

Oggi siamo al bivio, e dobbiamo scegliere che fare. O siamo in grado di capire cosa siamo realmente, comprendendo che dobbiamo lottare per garantire quanto di elevato abbiamo pensato e guadagnato nella storia come essenza della nostra civiltà, oppure siamo destinati a soccombere nella debolezza, insieme ai nostri ideali, seppellendo i nostri stessi valori occidentali.

Se l’umanesimo cristiano è grande perché universale, ossia perché in grado di riconoscere ovunque la dignità di ogni persona umana, questa visione suprema può essere garantita unicamente applicandola a livello globale, altrimenti diventerà il sarcofago del nostro sepolcro. La democrazia è una conquista che non si realizza da sé, non resta in vita per inerzia, ma obbliga a difenderla attraverso l’esercizio della forza con cui si tutela chi è fragile e vulnerabile.

Occorre muoversi. Bisogna avere il bene umano come fine, e considerare la guerra alla barbarie dei talebani o dell’Isis come mezzo indispensabile per garantire ai nostri figli di non essere stati complici passivi di questo olocausto globale. Questa guerra mondiale non ci vede protagonisti ancora, perché siamo pronti solo a subire il male come un ineluttabile fardello di chi è, e si considera, carne da macello.

L’Europa deve fare la sua parte. Questo il passaggio cruciale. Le nostre nazioni devono dare un’interpretazione attiva di se stesse che affermi realmente quanto conta per noi vivere e restare nella libertà. In definitiva, non è questione di guerra santa, ma semmai di difesa sacrosanta di noi stessi e della nostra filosofia di vita.



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