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Tutti i successi di Putin in Siria

crisi siriana

La riconquista della città simbolo di Palmira ha posto alcuni punti fermi da cui si può partire per tentare di capire l’evoluzione della guerra contro il terrore di ISIS.

Prima di tutto, i russi hanno ancora una volta dimostrato che sono in grado di iniziare ma anche di concludere guerre asimmetriche. Negli ultimi 15 anni in Iraq, Afghanistan, Libia, l’Occidente non è stato capace di chiudere le partite militari che ha voluto iniziare e ogni volta si è frettolosamente ritirato dalla scena prima di arrivare a pacificare ciascun Paese giungendo ad una transizione del potere a favore di un governo stabile e riconosciuto.

La Russia, invece, ha evidentemente fatto tesoro degli errori sovietici in Afghanistan: ha dimostrato di essere in grado di individuare obiettivi strategici, di conseguirli e di ritirarsi al momento giusto. In Siria il 30 settembre è scesa in campo con tutta la sua potenza militare su richiesta di Bashar al-Assad, sia per sostenerlo che per contrastare la minaccia Jihadista. Il 13 marzo Putin ha annunciato il ritiro, ma solo dopo aver ottenuto il consolidamento del regime siriano e la distruzione del principale sistema di finanziamento dell’ISIS, tramite il contrabbando di petrolio e attraverso la complicità della Turchia.

Il ministro della Difesa Serghei Shoigu ha tratto un bilancio: colpito duramente il nemico nella zona di Aleppo, disarticolata la produzione, raffinazione e distribuzione del petrolio con l’annientamento di 209 infrastrutture petrolifere, distrutte migliaia di autocisterne, neutralizzati oltre 2000 terroristi fra cui 17 comandanti militari. Queste operazioni sono state portate a termine grazie a un coordinamento interforze fra l’esercito siriano e truppe speciali russe. Queste ultime erano costituite da più forze: la Zaslon del SVR (Sluzhba Vneshney Razvedki: il Servizio di Intelligence Estero) ha messo in sicurezza ambasciate e centri di potere, gli Spetsnaz hanno mantenuto il controllo della base aerea di Hmeimim a Latakia e della base navale di Tartus oltre a fornire servizi di ricognizione e di individuazione degli obiettivi. Altre squadre di Spetsnaz sono giunte dal GRU (Glavnoye Razvedyvatelnoye Upravleniye: il servizio di intelligence militare), dalla 431esima Unità di Ricognizione della Marina, e dal Comando Speciale Operazioni (KSO), questi ultimi principalmente tiratori scelti. Tutte forze altamente specializzate e in numero ridottissimo: un totale di un otryad (un distaccamento, numericamente equivalente a un battaglione NATO di 230-250 uomini) principalmente utilizzato in missioni di ricognizione e individuazione del nemico per guidare l’artiglieria e, soprattutto, i raid aerei su obiettivi determinati col minimo dispendio di energie, uomini e munizioni.

In parallelo con la chiusura delle ostilità e il ritiro delle forze speciali dalla frontiera siriano-turca, la Russia ha individuato nell’asse Damasco-Palmyra-Raqqa la principale direttrice d’attacco per colpire al cuore il califfato nella regione, ha ricollocato sul terreno il minimo numero possibile di uomini necessario per coordinare e guidare gli attacchi aerei. Dopo due settimane di bombardamenti mirati dedicati all’eliminazione dei terroristi e all’interdizione di eventuali rinforzi, ha dato il via libera alle forze di terra siriane. Queste hanno concluso la pulizia dell’area di Palmira non solo catturando un obiettivo patrimonio dell’UNESCO ma penetrando in profondità nel territorio controllato da ISIS ed aprendosi la strada per un prossimo attacco, molto probabilmente nella regione fra Raqqa e Deir ez Zour. Colpendo quest’area, infatti, russi e siriani raggiungerebbero il duplice obiettivo di dividere letteralmente in due il territorio sotto il controllo dei terroristi e di portare l’attacco al centro di controllo strategico del califfato orientale costringendolo a ripiegare ulteriormente sullo scacchiere africano e, in particolare, libico.

Il risultato è che Putin ha consolidato il regime siriano: un anno fa l’occidente stava valutando i piani per toglierlo di torno mentre ora Assad è l’unico paladino in grado di combattere Daesh direttamente sul terreno. Il regime è considerato ora così sicuro che le forze speciali Zaslon dislocate nella capitale Damasco (fra il ministero della difesa in Piazza Umayyad e l’Ambasciata Russa in viale Omar Ben Al-Khattab), con l’obiettivo di porre in salvo persone e materiali chiave in caso di improvviso crollo del regime, ora sono state fortemente depotenziate. Finché il terrorismo non sarà sradicato dal Medio Oriente, Putin scommette che nessuno oserà toccare la Siria.

Intanto, a Roma si continua a discutere (e a twittare). Dopo la notizia che gli ostaggi italiani Gino Policarpo e Filippo Calcagno – per otto mesi nelle mani dei terroristi – si sono sostanzialmente liberati da soli fuggendo dalla prigione in periferia di Sabratha, ha suscitato l’ilarità mondiale il messaggio “Palmira finalmente liberata ” inviato dal nostro ministro degli esteri per celebrare una vittoria in cui l’intero occidente non ha avuto il minimo ruolo.

A questo punto, quella che tutti i media governativi americani continuano a battezzare la “U.S. led coalition“, la coalizione anti ISIS teoricamente guidata dagli Stati Uniti, dovrà tentare di riguadagnare prestigio e prendere seriamente in mano le redini della guerra al terrore.

Escludendo qualsiasi serio tentativo nello scacchiere mediorientale, e vista l’impotenza delle forze antiterrorismo in Europa, rimane solo la Libia. E questo espone ancora di più proprio il nostro Paese.

In queste ore, con la fuga da Tripoli del governo ribelle guidato da Khalifa Ghwell in seguito all’arrivo del governo di Fajez Serraj sostenuto dall’ONU, l’Occidente potrebbe tentare di prendere scorciatoie e mandare avanti l’Italia, ponendola alla guida di una forza militare ancora prima che il nuovo governo abbia avuto il tempo di coagulare attorno a sé la maggior parte delle numerose tribù e chiedere legittimamente l’intervento.

Proprio qui avevamo anticipato i rischi cui andremmo incontro se l’occidente, con l’Italia mandata allo sbaraglio in prima fila, cedesse alla fretta. Qualsiasi intervento armato che giunga senza un ampio sostegno da parte delle fazioni belligeranti non avrebbe altro risultato che ottenere la coagulazione di tutte le tribù libiche attorno a chi fosse in grado di presentarsi come l’autentico difensore del suolo libico dagli invasori stranieri. Il califfato non vede l’ora di poter rappresentare quel difensore.


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