“Penso emergerà nei prossimi giorni che ci sono decisori pubblici formalmente indagati nell’ambito dell’indagine Tempa Rossa. Altrimenti – così com’è adesso – l’impianto accusatorio sembra reggere poco”. Pier Luigi Petrillo insegna Teorie e tecniche del lobbying all’università Luiss e da anni chiede il varo di una normativa che disciplini e renda trasparenti i rapporti tra gruppi di pressione e soggetti pubblici. In questa conversazione con Formiche.net commenta implicazioni e conseguenze della vicenda che ha portato Federica Guidi a dimettersi dal governo. Punto di partenza una riflessione sul traffico di influenze illecite (qui l’articolo su cos’è e come funziona questo reato), del quale è indagato Gianluca Gemelli, imprenditore e compagno dell’ex ministro dello Sviluppo economico.
Professore, è d’accordo con chi – come il magistrato Carlo Nordio – ritiene che il traffico di influenze illecite sia un reato in grado di scompaginare l’assetto dei rapporti tra politica e aziende?
Senz’altro sì. E’ un reato che va a colpire il cosiddetto lobbying illecito, ossia quelle attività d’influenza finalizzate a determinare un comportamento del decisore pubblico contrario ai doveri del suo ufficio. E’ evidente, però, che non possa funzionare correttamente senza una definizione di lobbying lecito. Se si dice che una cosa è illecita, bisogna anche indicare il confine del lecito. Altrimenti questa fattispecie penale rischia di essere utilizzata in modo da creare abusi. Si tratta di un difetto già rilevato nel novembre del 2012 dalla Corte di Cassazione.
Pensa quindi che l’ambito di applicazione sia poco chiaro?
Ci sono due elementi che tagliano la testa al toro. Questo reato lo abbiamo introdotto in virtù di quanto previsto da due Convenzioni internazionali sulla corruzione. Tuttavia molti Paesi che hanno recepito – al pari dell’Italia – tali Convenzioni si sono rifiutati di introdurre questa fattispecie penale nel loro ordinamento, ritenendola troppo vaga. La Svizzera, l’Austria, la Germania, l’Olanda, la Gran Bretagna. Stati che non possono essere considerati la culla della corruzione. Noi, invece, l’abbiamo copiata e incollata in maniera pedissequa.
E il secondo dato?
La stessa Paola Severino – ministro della Giustizia quando venne approvata la cosiddetta legge anticorruzione – disse alla Camera che sarebbe stato necessario adottare un’altra normativa per disciplinare l’attività di lobbying, perché, altrimenti, ci sarebbe stato il rischio di un’applicazione inopportuna di questa fattispecie. Mi pare che queste due considerazioni facciano emergere chiaramente le difficoltà e le contraddizioni che stiamo vivendo in Italia.
Negli ultimi giorni in molti hanno gridato allo scandalo per i rapporti intercorsi tra strutture ministeriali e aziende di settore nella stesura dell’emendamento pro Tempa Rossa. E’ davvero uno scandalo o è normale che su un provvedimento complesso il governo si consulti con i diversi soggetti interessati?
Non solo è normale ma è doveroso per il decisore pubblico interloquire con i portatori d’interesse. Non siamo in una dittatura ma in una democrazia, che può definirsi tale solo se c’è pluralismo e se esiste una pluralità di persone, di idee, di proposte e di interessi. Tutti quelli che si stupiscono per un’email inviata al capo del legislativo di un ministero per rappresentare una certa posizione, evidentemente sono contrari alla democrazia e aspirano ad avere uno Stato dittatoriale, con un sol uomo al comando, che in totale solitudine decide per tutti. Sono onestamente spaventato da questa idea. La democrazia si arricchisce dalla pluralità.
Qui si inserisce il concetto di gruppo di pressione. Quali sono gli interlocutori in un caso come quello Tempa Rossa?
Ovviamente, i portatori di interesse in questa vicenda non sono solo le aziende petrolifere. Ma, ad esempio, anche il WWF e Legambiente che, infatti, a loro volta hanno interloquito con i ministeri per far valere la loro posizione. Inutile girarci intorno: il problema di fondo è l’adozione di regole precise e stringenti che disciplinino la relazione tra i decisori pubblici e i portatori di interessi. Si incontrano tutti i giorni all’interno di ogni ministero. Meno male che ciò accade, però è necessario regolamentare il fenomeno e rendere trasparente il sistema, in modo che i cittadini siano informati e cada questo velo di opacità.
Ma perché, secondo lei, è giusto che si parlino? Non dovrebbe decidere il governo in via autonoma?
Nessuno nasce imparato ed esperto di tutto. Fortunatamente, non abbiamo un governo tecnico che nel nostro ordinamento rappresenta una dimensione emergenziale. E non siamo neppure in una dittatura. E’, dunque, normale che lo staff di un ministro parli con qualcuno che conosce meglio la materia prima di adottare un qualsiasi provvedimento. E’ chiaro, poi, che dovranno essere fare tutte le verifiche del caso. La responsabilità della scelta finale è sempre e solo del decisore pubblico. Il problema fondamentale rimane lo stesso: l’assenza di regole.
Anche alla luce di questi ultimi fatti, ritiene che oggi l’approvazione di una legge sulle lobby sia più vicina?
Escludo che sia così. Dobbiamo essere chiari: se si volesse regolare il fenomeno, lo si potrebbe benissimo fare in tempi rapidi. Purtroppo devo dire che, dal 2006 ad oggi, nessun governo ha anche solo proposto una regolamentazione delle lobby. L’ultimo a provarci fu l’esecutivo di Romano Prodi: l’allora ministro Giulio Santagata – per scrivere la legge – istituì un’apposita commissione di cui facevano parte – oltre al sottoscritto – anche l’attuale componente dell’Anac Michele Corradino e l’attuale capo di Gabinetto del ministero dell’Economia e delle Finanze Roberto Garofoli. Il provvedimento fu approvato dal Consiglio dei Ministri ma poi, in Senato, non se n’è saputo più niente.
Ma cosa manca perché si giunga ad adottare una normativa in questo senso? La voglia di mantenere opachi certi meccanismi?
La politica è contraria alla regolamentazione del fenomeno lobbistico perché in questo modo verrebbero scoperti gli altarini. Le lobby sono un paravento della politica. Dietro di loro si nasconde la politica che non decide. Se ci fosse una legge in questo senso, i cittadini potrebbero sapere cosa succede, potrebbero sapere perché il decisore pubblico – sia esso un ministro o un semplice parlamentare – abbia scelto in un modo o nell’altro, sulla base di quali incontri e di quali interessi. E’ chiaro, quindi, che a tutti conviene non regolamentare questo rapporto: diventerebbe trasparente il motivo per cui vengono approvate certe leggi anziché altre.