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Perché col Sì al referendum del 17 aprile saremo tutti gabbati

Stefano Cingolani

Okay, il petrolio fa schifo, inquina l’ambiente, le teste e i cuori; il gas è un po’ meglio ma ci mette nelle mani di Putin e comunque fa parte di quell’era dei fossili che deve essere superata, lo dicono tutti i cervelloni delle migliori università del mondo. Oltre tutto, gli idrocarburi hanno messo in moto il più perverso dei meccanismi basati sulla “compravendita delle influenze” che rappresenta la bandiera del nuovo luteranesimo giudiziario. Conclusione: il sì al referendum chiude anche in Italia l’era del predominio petrolifero e apre l’era al coraggioso nuovo mondo delle energie rinnovabili.

È questo, in buona sostanza, il messaggio che gli ambientalisti hanno lanciato. Ogni propaganda, per essere efficace, deve avere magari un grano di verità. In questo caso, invece, si tratta proprio di una “narrazione” come va di moda dire, mistificante. La riprova?

Facciamo un balzo verso ovest: dalla Puglia che capeggia la “rivolta delle regioni” contro le trivelle in mare, passando attraverso la magistratura lucana che guida la battaglia contro le trivelle a terra, sbarchiamo in Sardegna. Ebbene qui il panorama è del tutto diverso, nell’isola infuria la lotta ai “boss del vento”. Rullano i tamburi, gridano i giornali, protestano gli elettori e gli eletti contro il Far West eolico che ha già piazzato 27 centrali mentre altre 34 sono in attesa di autorizzazione (per 16 di loro è stata negata nell’autunno scorso dalla giunta regionale). Tra i signori delle pale spicca la Falck Renowables. Regione che vai lobby che trovi.

La questione è seria e va analizzata sul campo, ma quel che la storia della Sardegna può insegnare è che se il 17 aprile vince il Sì al referendum sulle trivelle (come viene scorrettamente chiamato) regioni come la Sardegna o movimenti ambientalisti che nell’isola si battono contro il vento possono essere autorizzati a mobilitare gli elettori a loro volta. Con il che crolla il teorema ambientalista.

Se vince il Sì non si aprono le porte al grande balzo verso le rinnovabili, ma probabilmente a una guerriglia più o meno locale e a uno scontro di interessi particolari che si rovescerà come un boomerang anche sulle energie rinnovabili. Perché non c’è solo il vento a turbare l’ambiente e il paesaggio. C’è il sole (quanto territorio bisogna coprire di cellule e accumulatori per produrre una consistente quantità di energia elettrica?). E c’è l’acqua.

Fino al boom economico degli anni ’60, la principale fonte di energia elettrica in Italia proveniva dagli invasi delle Alpi (e in parte degli Appennini), l’acqua della quale il centro nord della penisola è ricca alimentava le centrali idrauliche. Il paese ha ancor oggi una consistente quantità di centrali ad acqua, ma senza dubbio potrebbe aumentare la sua quota a spese delle centrali a gas o a olio combustibile che sputano anidride carbonica nell’atmosfera. Ma qualcuno crede davvero che la costruzione di una nuova diga possa essere accolta con favore nelle valli montane? Quanti comitati No diga sorgerebbero? Quanti comuni e regioni scenderebbero in campo? Nuovi referendum, nuovi “scambi di influenze”, nuove inchieste della magistratura.

Così l’energia, elettrica, termica e quant’altro, conviene sempre acquistarla dall’estero. Gli italiani furbacchioni consumano (pagandolo caro in bolletta e con le tasse, ma questo i No Triv non lo dicono) e gli altri producono. Non nel mio giardino di casa. Che pacchia. Niente di meglio per crogiolarsi sulla riva del fiume in attesa della “decrescita felice” come viene definito oggi quel che un tempo si chiamava comunismo pienamente realizzato stile Karl Marx giovane (poi anche lui lascerà ai sogni infantili l’immagine idilliaca dell’uomo che vive di caccia e di pesca per virare verso la bronzea dittatura del proletariato).

E’ questo il vero retroterra ideologico dietro i No Triv. Non il trionfo della nuova era rinnovabile (come dimostra la vicenda sarda), ma la vittoria di quella cultura anti-industriale che si sta facendo strada, aiutata anche dalla crisi che spinge fette sempre più ampie della popolazione, soprattutto giovanile, nel ventre molle della vita assistita dalla famiglia o dallo Stato. Una trappola della nuova povertà che porta a pretendere non un lavoro (verso il quale c’è sfiducia se non rifiuto vero e proprio), ma un “reddito di cittadinanza”, cioè un’elemosina di stato.

Giunti a questo punto, nessuno si preoccupa più di che cosa chiede davvero il quesito al quale gli italiani sono chiamati a rispondere il 17 aprile, perché ciascuno si sentirà in dovere di scaricare nell’urna tutte le proprie frustrazioni, le proprie angosce, amarezze o soltanto la rabbia che i persuasori occulti avranno manipolato a loro uso e consumo.

Tutti gabbati, come cantava il Falstaff verdiano.

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