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Esiste ancora una politica industriale?

Per pura coincidenza temporale, il saggio di Franco Debenedetti (Scegliere i vincitori, salvare i perdenti. L’insana idea di una politica industriale, Marsilio, pp. 335 €18) esce proprio mentre, da un lato, le cronache politiche e giudiziarie trattano di episodi (veri e presunti) di intervento pubblico particolaristico nella politica industriale e, da un altro, del Documento di Economia e Finanza (DEF) e del Programma Nazionale di Riforma (PNR) impongono a Governo e Parlamento di porsi la domanda profonda e inquietante nella copertina del volume: è “insana” l’idea stessa di politica industriale?

Il volume non è stato concepito per la aule universitarie ed è stato scritto da un ingegnere che ha guidato grandi industrie manifatturiere ed è stato parlamentare (anche se non sempre ascoltato, come avrebbe meritato, proprio dalla parte politica nei cui scranni sedeva). È, tuttavia, una delle migliori e più complete storie economiche della politica industriale (e della politica economica vista attraverso l’evoluzione della politica per la manifattura) apparse in questi ultimi anni. Non è un manuale universitario; è una monografia che, dopo un ‘preludio’ sulla politica industriale del ventennio fascista, e un’introduzione su quella dell’Italia del dopoguerra e dei decenni immediatamente a esso successivi, esamina principalmente la politica industriale dalla crisi del 1992 ai giorni nostri, soffermandosi sui maggiori  settori ed esaminando in dettaglio l’evoluzione della Cassa Depositi e Prestiti.

È una monografia ricca e documentata (oltre trenta pagine di note e indice di autori citati) come uno studio universitario. Da essa si trae una distinta impressione che, nonostante il passaggio degli anni, Il Governo dell’Industria in Italia (Il Mulino, 1972) sia rimasto impiccione e pasticcione, come lo chiamò, nel libro citato, Giuliano Amato venti anni prima quella crisi del 1992 che, da Presidente del Consiglio, dovette gestire. Di conseguenza, è quanto mai valido e attuale l’interrogativo se l’idea stessa di politica industriale sia “insana”. E’ una domanda ancora più profonda ora che nel 1972, perché siamo in anni di vacche magre, produttività rasoterra e alto debito pubblico.

Una lettura frettolosa del volume (scritto peraltro molto bene e tale da interessare il lettore anche non specializzato) potrebbe indurre che la risposta sia netta e positiva: lo Stato (e le Regioni) dovrebbero tenere le loro dita impiccione e pasticcione lontano dalle politica industriale e lasciare l’industria al corso naturale dell’economia. Tuttavia, in alcuni capitoli, paiono affiorare esempi di interventi salutari dello Stato nell’industria, in certi momenti storici.

Il saggio contiene un interessante capitolo sulla politica industriale della Germania, specialmente negli anni tra le due guerre. Sarebbe stato utile un esame delle proposte, specialmente francesi (Rapport Beffa, Rapport Gallois) per una politica industriale europea volta all’innovazione. Il primo dei due documenti ha avuto un certa eco in Italia ed è stato argomento di dibattito in varie sedi. Il secondo non è stato citato neanche dai quotidiani economici. Sarebbe stato anche utile uno sguardo alla politica dell’industria nell’età giolittiana, quella dei primordi delle dita pasticcione e impiccione.


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